I 4 punti del piano Colao spiegati alle opposizioni, per non chiudere gli occhi
Infrastrutture, sblocco dei cantieri e digitalizzazione della pubblica amministrazione. Perché di fronte al progetto per "ridisegnare il paese" è inutile tirare in ballo le "condizionalità europee"
In che misura il progetto “per ridisegnare il paese” (Giuseppe Conte) – cioè il piano di Vittorio Colao anticipato dal Foglio e caldamente suggerito dall’Europa per dare all’Italia il Recovery fund – richiede la concordia nazionale poiché “non è un tesoretto a disposizione dei governi in carica”? E quali al di là dell’indice ne sono la latitudine e la longitudine? Le infrastrutture sono il punto più dolente ma anche imponente. Anche perché si porta dietro un altro storico gap dell’Italia, quello tra nord e sud. Lo studio più recente è del 21 settembre 2019, titolo “Lo sviluppo del mezzogiorno: una priorità nazionale”, autore Fabio Panetta, allora direttore generale di Bankitalia e oggi rappresentante italiano nel board della Bce. Partendo dai dati di un Pil procapite metà di quello del centro nord e una disoccupazione doppia (allora al 20 per cento), Panetta ricorda come la massima convergenza tra le due parti d’Italia si realizzò tra la fine degli anni Cinquanta e metà dei Settanta: “In coincidenza con la realizzazione di infrastrutture e industrie, in gran parte a capitale pubblico. Poi la riduzione degli investimenti ha interrotto questa evoluzione”. “Il moltiplicatore di investimenti pubblici varrebbe secondo i nostri calcoli per tutto il fattore 2 al sud, rispetto a 0,3 al nord”. Ovvero per ogni miliardo investito da Napoli in giù la crescita nazionale risulterebbe rispettivamente di due miliardi e di 1,3. Servono investimenti in tutta Italia, ovviamente, ma al sud ancora di più e servono a tutti.
Basta guardare alle reti autostradali e all’alta velocità. La prima, che era la più sviluppata d’Europa dopo la Germania, è oggi quarta dietro anche a Spagna e Francia. La seconda finisce a Salerno, e riproporre l’alta velocità adriatica e fino a Palermo e Catania anche con la costruzione del ponte sullo stretto di Messina è ormai una necessità non un optional. Due esempi: il porto container di Gioia Tauro in Calabria ha richiesto 20 anni di lavori e quando lo si è inaugurato si è “scoperto” che non era servito da strade e ferrovie. La mancanza di collegamenti e servizi ha favorito, non ostacolato, le infiltrazioni criminali (il porto è oggi blindato), eppure il porto ha prodotto un incremento demografico di 3 mila persone in controtendenza rispetto alla regione. Lo stabilimento Fiat di Melfi, ora Fca, inaugurato nel 1994, è anche quello nato isolato dal mondo. Ma la produzione di Panda e Jeep ne hanno fatto fino a poco fa il maggior contributore all’export dell’Italia, e al Pil del meridione.
A bloccare i cantieri (i tempi di realizzazione in Italia sono più di 15 anni per le grandi opere e tre per quelle fino a 100 mila euro) è come è noto la burocrazia. Da anni vengono promessi decreti “sboccacantieri” puntualmente disattesi o silurati da decine di norme attuative. Il modello Genova, con commissari per ogni opera, potrebbe essere superato dall’annuncio di una novità anch’essa suggerita da Colao, e cioè l’abolizione della responsabilità erariale verso la Corte dei conti per gli amministratori che danno materialmente le autorizzazioni; il tutto accompagnato dal silenzio-assenso entro 60 giorni. A meno che non sia comprovato il dolo.
La Commissione europea nelle raccomandazioni inviate all’Italia il 20 maggio chiede di mettere mano a una riforma del codice civile. L’ultima rilevazione di Bruxelles di settembre 2019 mostra che nei tre gradi di giudizio occorrono in Italia circa 1.300 giorni per una sentenza rispetto a poco più di 200 della Germania e poco più di 400 della Francia. Ed a 150 dell’Olanda. La digitalizzazione figura nel rapporto Colao anche come impegno non rinviabile dimostrato dalla pandemia, quando l’e-commerce e lo smart working hanno fatto funzionare il paese durante la reclusione. Ma la realtà era già nota a novembre 2019 all’Europa, che nel dossier Desi (Digital economic strategy index) colloca l’Italia al 25mo posto su 28. Ci seguono Polonia, Romania e Bulgaria. L’indice tiene conto di cinque indicatori: connettività, capitale umano, uso di internet, integrazione dei servizi digitali, servizi digitali pubblici: la prima, la Finlandia, ha 70. Il Regno Unito 62. La Spagna 57. La Germania 55. La Francia 51. L’Italia 44. Il ritardo è soprattutto nell’e-governement (37 punti a fronte del 64 di media europea), meglio la sanità digitale, ottava in Europa. Ma solo il 22 per cento della popolazione interagisce con la pubblica amministrazione rispetto alla media Ue del 53 per cento. Ora la domanda è: possono essere questi argomenti divisivi tra maggioranza e opposizione? O, dal punto di vista dei sovranisti, si tratta di intollerabili condizionalità europee?