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Un virus populista da combattere: il sovranismo monetario

Renato Brunetta

Da Bagnai a Borghi. Perché chi vuole più Bce ma meno Europa lavora per avere una sfiducia sistemica nell’euro

Politiche monetarie e politiche di bilancio sono due facce della stessa medaglia. Assieme, rappresentano i due pilastri per raggiungere gli obiettivi di crescita e stabilità economico-finanziaria degli Stati o delle unioni di Stati. L’implementazione delle due politiche è però molto diversa, perché, mentre le politiche monetarie sono realizzate dalle banche centrali, istituzioni che funzionano in autonomia secondo precisi statuti; le politiche di bilancio sono più complesse, perché funzionali agli obiettivi di politica economica dei governi e, quindi, hanno implicitamente la complessità della condivisione decisionale di forze politiche e della funzionalità a obiettivi strategici e di consenso. Quindi, normalmente, e a maggior ragione in caso di crisi, la tempistica di implementazione delle due politiche è necessariamente diversa. Le politiche monetarie possono essere immediatamente definite e attuate dalle banche centrali, sempre sulla base di una precisa volontà politica, mentre più lente da condividere, decidere e attuare sono le politiche di bilancio. Per queste ragioni, teorie superficiali definiscono le politiche monetarie più efficienti ed efficaci delle politiche di bilancio e potenzialmente esaustive del fabbisogno di policy durante, appunto, situazioni di crisi. Ma proprio perché le situazioni di crisi, sia di natura asimmetrica, come quella del 2008, che di natura simmetrica, come quella attuale, comportano una sfasatura temporale tra chi usa immediatamente le politiche monetarie e le politiche di bilancio, le seconde producono un lag temporale di elaborazione e di implementazione, con ampi margini di incertezza. Il che ha portato, come dicevamo, alla riflessione di qualcuno, nel nostro caso i sovranisti di casa nostra, di destra e di sinistra, che è meglio affidarsi esclusivamente alle politiche monetarie, perché le politiche di bilancio sono inutili, e alla fin fine troppo costose e dannose. Ma, come vedremo, non è affatto così.

 

Mario Draghi ha sempre sostenuto che la politica monetaria, da sola, non è uno strumento sufficiente per poter affrontare e risolvere le crisi economiche e finanziarie. Le politiche monetarie non convenzionali, come il Quantitative Easing o i tassi di interesse a zero o negativi (meglio note come ZIRP) possono, infatti, certamente offrire un sostegno necessario e importante all’economia durante periodi di crisi eccezionali, come quella del 2008 e quella attuale, ma senza il parallelo avvio delle politiche di bilancio intraprese dai governi e il trasferimento della maggior liquidità all’economia reale effettuato per il tramite del sistema creditizio, tali politiche sono, alla lunga inefficaci e dannose.

 

Come ricordato di recente dal governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco nelle sue considerazioni finali, l’utilizzo degli strumenti di politica monetaria non convenzionale, come il programma di acquisti di titoli di Stato deciso dal Consiglio Direttivo della BCE, è stato immediatamente efficace sul mercato dei titoli di Stato, tanto che i rendimenti dei titoli pubblici sono scesi dopo l’adozione del recente QE e la frammentazione del mercato dei “sovereign bond” è subito diminuita. Studi effettuati dalla Banca d’Italia e dalla Banca Centrale Europea hanno inoltre dimostrato come vi sia evidenza che gli acquisti di titoli pubblici abbiano ridotto significativamente i premi per scadenza e abbiano fornito un contributo rilevante al sostegno dell’economia e dei prezzi. Ma, lo ripetiamo, senza politiche di riforme intraprese da parte dei governi e senza il contributo delle banche e degli istituti di credito che prestano denaro alle imprese, tutto questo sarebbe largamente insufficiente.

 

L’importanza delle politiche monetarie è tornata prepotentemente alla ribalta durante questa crisi, quando le banche centrali hanno deciso di intraprendere misure eccezionali, per intervenire a sostegno delle economie colpite. La Federal Reserve è intervenuta attraverso una operazione senza precedenti di monetizzazione del debito pubblico americano, che ha portato l’attivo della banca centrale a superare i 7 trilioni di dollari, per effetto del massivo acquisto di Treasuries del Tesoro, oltre che ad asset di vario tipo, ETF compresi. La Banca Centrale Europea ha, invece, deciso di attuare un piano eccezionale d’acquisto di bond dell’eurozona (denominato PEPP) del valore iniziale di 750 miliardi di euro, da esaurirsi a fine 2020, aumentato poi di altri 600 miliardi di euro fino a metà 2021. Un intervento che ha consentito ai titoli di stato dei paesi del sud Europa di non vedere un crollo dei loro prezzi e un aumento spropositato dei relativi rendimenti. L’operazione ha avuto successo.

 

Proprio il successo di questa politica ha portato la componente sovranista del nostro paese, tanto di maggioranza, quanto di opposizione, ad elaborare la tesi secondo cui la politica monetaria è, da sola, sufficiente per offrire una soluzione al problema del reperimento delle risorse necessarie per finanziare il piano di ricostruzione dell’economia italiana (e più in generale europea), nell’esatto momento in cui la Commissione Europea ha proposto un piano di intervento comunitario del valore di 2.400 miliardi di euro, basato su quattro pilastri finanziari (MES, BEI, SURE e Next Generation UE Fund), da erogare in parte attraverso prestiti (loans) e in parte attraverso trasferimenti da bilancio (grants). Questa teoria del “sovranismo monetario” considera la politica monetaria della BCE uno strumento concorrente e prevalente rispetto ai fondi del piano Von der Leyen basato, appunto su grants e loans.

 

L’intellighenzia sovranista che propone tale teoria sostiene che gli acquisti di titoli di Stato da parte della banca centrale sia sufficiente per incentivare i governi ad emettere quanti più bond possibili, dal momento che questi, dopo essere stati acquistati dagli investitori alle aste, finirebbero per essere assorbiti successivamente dalla BCE sul mercato secondario. Inutile, quindi, sempre secondo questi teorici sovranisti, che il governo italiano prenda a prestito i fondi europei, condizionati all’esecuzione di un piano di riforme che, a detta dei propugnatori della teoria, è soggetto a una draconiana condizionalità, che farebbe perdere la sovranità decisionale al nostro Paese. La politica monetaria, sempre per questi teorici sovranisti, diventa dunque totalizzante e immanente, l’unica cosa che conta. Teoria questa sicuramente affascinante e suadente. Se non fosse che, l’idea di una banca centrale che risolve i problemi del debito pubblico di uno Stato monetizzandolo e stampando moneta è tanto vecchia di decenni, quanto foriera di disastri economici, politici e finanziari per le economie che decidono di adottarla. Senza considerare che, nel caso italiano, essendo la BCE una istituzione comunitaria e non nazionale, si arriverebbe al paradossale risultato di sovranisti anti-europeisti che propongono la cessione di sovranità monetaria direttamente a una istituzione comunitaria. Non proprio un risultato degno di un sovranista. Diciamolo chiaramente. Il mondo che i teorici del sovranismo monetario come Alberto Bagnai o Claudio Borghi della Lega hanno in mente è quello in cui il Tesoro può emettere miliardi di titoli di stato (e quindi maggior debito pubblico) senza limiti, sapendo che la banca centrale e, con essa, le banche centrali nazionali, alla fine li acquisterà tutti, retrocedendo i proventi allo stesso Tesoro e detenendo i titoli fino a scadenza. Quello che in teoria economica è noto come processo di monetizzazione del debito pubblico, che, portato alle estreme conseguenze, diventa, di fatto, sterilizzazione del debito pubblico. Ovvero, il falò dei titoli di Stato. La Banca Centrale acquista i titoli, stampando maggior moneta, e poi li annulla. Dal momento che i titoli sono una attività nel portafoglio della Banca Centrale, ma una passività nel bilancio dello Stato, l’annullamento dei titoli (effettuato anche detenendoli fino a scadenza, l’effetto è equivalente) da parte della prima annulla automaticamente anche il debito del secondo. Il gioco è dunque a somma zero.

 

Perché allora, se questa tanto semplice quanto fenomenale intuizione, provoca l’azzeramento del debito pubblico la BCE, o qualsiasi altra banca centrale, non la pratica davvero? Il motivo è da ricercare nel mercato valutario. Una banca centrale che realizzasse una operazione del genere provocherebbe un crollo di fiducia degli operatori economici nella sua valuta (l’euro, nel caso della BCE) che, rappresentando le passività nel bilancio della banca centrale, varrebbe esattamente come il valore dell’attivo azzerato: nulla. In altre parole, una operazione del genere creerebbe una sfiducia sistemica nell’euro, il cui valore crollerebbe, anche per effetto dell’inflazione monetaria generata dall’eccesso di moneta stampata per acquistare una massa elevatissima di titoli di Stato. Il crollo dell’euro è, quindi, la conclusione di questo processo auspicato dai sovranisti monetari.

Non è escluso che sia proprio quello che essi vogliono, dal momento che più volte hanno affermato, prima di questa crisi, che l’Italia dovrebbe abbandonare la valuta comune e tornare alla lira. Ecco, se la loro teoria fosse applicata davvero, il risultato sarebbe esattamente quello.

 

Sfortunatamente per i sovranisti, e fortunatamente per l’Italia e per l’euro, però, tutto ciò non avverrà. Questo perché l’Europa conosce benissimo queste questioni, molto meglio di quanto le conoscano i sovranisti di casa nostra. Tanto che la BCE, proprio per questo motivo, ha messo dei limiti stringenti alla sua politica di acquisto.

Innanzitutto, ha posto un termine temporale al programma, che andrà avanti fino a giugno 2021. E se anche ci fossero delle proroghe, dal momento che procedendo con questo ritmo di acquisti i 1.350 miliardi di euro complessivi si esaurirebbero ben prima del prossimo giugno, la BCE ha già fatto capire chiaramente che arriverà in ogni caso un momento in cui si libererà dei titoli di Stato detenuti in portafoglio, vendendoli sul mercato. A quel punto, se l’Italia non avrà effettuato le riforme necessarie, saranno dolori per i nostri BTP, che subirebbero immediatamente dopo l’annuncio della BCE un forte deprezzamento e un contestuale aumento dei rendimenti. E, allora, quanto maggiore sarà l’ammontare di nuovi titoli emessi, tanto più ampio sarà l’effetto negativo sul nostro debito pubblico. Ecco, perché, l’idea di emettere titoli in quantità illimitata può sembrare efficace adesso, ma si rivelerebbe un enorme boomerang per le nostre finanze pubbliche non appena la BCE e la nostra Banca d’Italia cominceranno a liberarsi dei BTP detenuti a bilancio. Secondariamente, come ricordato da Mario Draghi, l’acquisto di titoli all’interno del programma di acquisto avviene per l’80 per cento da parte delle banche centrali nazionali (per noi la Banca d’Italia), secondo le direttive stabilite dal Consiglio Direttivo della BCE e secondo un principio basato sulla “capital key rule”, che parametrizza gli acquisti alla quota di partecipazione al capitale della BCE delle banche centrali nazionali, ponderato per la popolazione e per il PIL. Alle banche nazionali rimane, quindi, per esplicita volontà della BCE, l’80 per cento del rischio dell’intera operazione di acquisto dei bond in eccedenza rispetto al normale “rollover” del debito annuale.

 

Ecco perché, allora, è necessario tornare alla questione della necessità di ricorrere alle risorse messe in campo dall’Europa, attraverso la sua nuova politica di bilancio, il vero oggetto di dibattito tra le componenti del Governo. La verità, infatti, è che le risorse messe in campo dal piano Von der Leyen, non sono sostitute di quelle messe in campo dalla BCE, come sostengono i sovranisti di maggioranza e opposizione, bensì complementari e sinergiche. Le politiche monetarie sono di supporto alle politiche di bilancio, non sostitute. Non ci potrebbe essere l’una senza l’altra. Insieme, queste due politiche formano quello che in letteratura economica è noto come “policy mix”, con un unico principio coordinatore, che è quello della Unione Europea, con le sue regole di funzionamento scritte nei trattati. In questo sta l’errore della teoria sovranista.

 

Il Quantitative Easing è una misura d’emergenza, destinato a lasciare spazio al Next Generation UE Fund a partire dalla seconda metà del 2021, quando quest’ultimo entrerà in funzione, secondo meccanismi stabiliti dalla politica di bilancio e fiscale comune, invece che da quella monetaria, la quale si farà da parte per tornare ad essere solo uno strumento di regolazione monetaria. Esattamente quello che dovrebbe avvenire in ogni sistema di federalismo fiscale che si rispetti, dove la redistribuzione delle risorse avviene tramite il bilancio, secondo delle regole stabilite da politici eletti dal popolo e non da banchieri centrali che non devono rendere conto (giustamente) a nessuno. Perché la distribuzione e la redistribuzione efficiente delle risorse sono l’essenza stessa di una compiuta democrazia, come insegna il caso degli Stati Uniti. Certamente, l’Unione Europea è ancora una grande incompiuta, sia a livello di unione politica che a livello di politica economica. Manca ancora un vero bilancio europeo, manca una politica di trasferimenti, manca una politica di condivisione efficiente del debito, manca un ministro delle finanze europeo.

 

L’eccezionalità di questa crisi potrebbe rappresentare il “momentum” giusto per riflettere sul futuro dell’Europa e per riformare i suoi trattati, con l’obiettivo di rivedere tanto lo statuto della Banca Centrale Europea, per completare i suoi obiettivi con quello della crescita, oltre che di sola stabilità dei prezzi, quanto le regole di funzionamento delle politiche di bilancio dell’Unione, con in mente la convergenza verso un modello di tipo federale, gli Stati Uniti d’Europa, basato su trasferimenti, crescita e sviluppo. In una democrazia compiuta.

 

*Renato Brunettadeputato di Forza Italia

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