Non si può creare lavoro senza cambiare il reddito di cittadinanza
Le politiche attive che non funzionano e tutte le opportunità che non vengono create. Come cambiare, e in fretta, il Rdc
La pubblicazione del Rapporto sul coordinamento della finanza pubblica da parte della Corte dei conti, pochi giorni fa, è stata l’occasione per tornare a riflettere sul Reddito di cittadinanza (Rdc). In seguito alla sua introduzione, come ha scritto Luciano Capone su queste colonne, abbiamo registrato nel 2019 una riduzione sia della povertà assoluta che di quella relativa: un effetto positivo, per quanto moderato e assai lontano (di un ordine o due di grandezza) dalle trionfali dichiarazioni al tempo della sua istituzione. Per pignoleria, dovremmo attendere valutazioni empiriche rigorose per capire se i risultati registrati siano davvero merito del Rdc, in quale misura (del tutto? residuale?), e se sia comunque efficiente dal punto di vista dell’allocazione delle risorse. Nel frattempo possiamo ragionare su ciò che sappiamo in materia di politiche attive del lavoro, ossia quei variegati interventi (dai programmi di formazione dei lavoratori ai servizi di assistenza alla ricerca di lavoro, come i Centri per l’impiego) definiti dall’Ocse sulla base di tre obiettivi: aumento della motivazione e degli incentivi per la ricerca di lavoro, aumento della disponibilità al lavoro di chi è senza occupazione, aumento delle opportunità di impiego adeguato. Un team di economisti così scriveva nel 2007, in uno studio per la Commissione europea: “Le politiche economiche in Italia sono sempre state usate come uno strumento per accontentare l’opinione pubblica e tipicamente sono state disegnate e implementate sulla base dei ‘principi ideologici’ del partito politico alla guida del paese, a prescindere dai reali bisogni della struttura economica italiana. Pertanto, i decisori politici non sono mai stati interessati a monitorare e valutare gli effetti di tali misure”.
Purtroppo, da allora si sono avuti miglioramenti marginali e temporanei. Uno dei difetti del Rdc, infatti, è proprio la scarsa chiarezza, ideologicamente motivata, con la quale è stato pensato e comunicato. Come ha fatto notare su Lavoce Cristiano Gori, ordinario di Politica sociale a Trento, il Rdc veniva presentato come “misura di reinserimento nel mondo del lavoro”. Al contrario, i primi dati disponibili sembrano negare un effetto positivo sull’occupazione; lo stesso Gori precisa come il Rdc sia evoluto nel tempo in senso assistenzialista, ad esempio incorporando il Reddito d’inclusione (Rei) renziano. Un approccio deleterio, visto ciò che oggi sappiamo dalla ricerca sulla valutazione delle politiche attive del lavoro. Rassegne critiche e meta-analisi (strumenti usati per “fare il punto” sulla frontiera delle conoscenze scientifiche) evidenziano l’enorme eterogeneità di risultati: se alcune misure, come gli incentivi per programmi di formazione delle imprese, sembrano aumentare la probabilità di assunzione dei partecipanti, altre misure sembrano avere effetti nulli o modesti, spesso non giustificandone il costo. Su una sola dimensione vi è forte consenso: la necessità di valutare attentamente qualsiasi intervento in base ai suoi obiettivi e al gruppo o tipologia di individui che ne rappresentano il target. In particolare, sappiamo che donne e giovani sono i gruppi che rispondono meno a questi programmi e al contempo sono più a rischio disoccupazione e povertà: ecco perché capire cosa funzioni diventa una necessità non solo accademica, ecco perché il giudizio (severo, ma giusto) di cui sopra è così rilevante. Non esistono purtroppo ricette uniche e facili per “abolire la povertà” o raggiungere la piena occupazione; è indispensabile un approccio pragmatico, coraggioso ma rigoroso, fatto di obiettivi precisi comunicati con chiarezza, affrontati in trasparenza con singoli provvedimenti e soprattutto da sottoporre alla valutazione della comunità scientifica. I proclami ideologici, gli slogan, le battaglie di principio rischiano invece di rivelarsi dispendi di risorse dagli effetti deludenti e una mancanza di serietà – e di rispetto – nei confronti di chi non riesce a trovare un’occupazione o non guadagna abbastanza.