Per programmare la ripresa occorre dare meno potere a Chigi e più al Mef
Fare come in Germania e togliere i pieni poteri economici alla presidenza del Consiglio. La ripresa e una rivoluzione strategica
La pandemia del Covid-19 ha fatto rilevare una drammatica carenza di infrastrutture sociali, ma non solo, nel settore sanitario, della Protezione civile, dell’assistenza ai poveri e agli anziani, della sicurezza alimentare e in generale dell’approvvigionamento di beni essenziali e di materiali strategici. Le ragioni di queste carenze sono molteplici, ma la principale appare essere la ignorata interdipendenza tra beni privati e beni pubblici, causa di un fallimento simultaneo dello stato e del mercato. Nonostante i pericoli dello statalismo, è stato evidente durante la pandemia come la risposta alla emergenza fosse dipendente dalla capacità delle amministrazioni pubbliche di offrire non solo norme e regolamenti, ma anche e soprattutto attività di direzione e coordinamento strategico, tenendo conto delle caratteristiche dei sistemi economici e delle ineguaglianze tra regioni, gruppi sociali e persone. Più in generale, la pandemia ha rivelato un aspetto inedito del rapporto tra beni pubblici e privati. Nel corso degli anni, infatti, il ruolo dei privati si è progressivamente esteso alla fornitura di beni pubblici in circostanze appropriate, a causa della presenza di caratteristiche private nei cosiddetti beni pubblici impuri. Ma la ricerca di una condizione minimalista dello stato ha fatto sì che l’aspetto simmetrico, ossia la presenza di caratteristiche pubbliche in beni privati, sia stato progressivamente trascurato. La pandemia ha reso, quindi, evidente come uno stato efficiente sia la componente cruciale della capacità di risposta all’esplosione dei rischi sistemici nella società globalizzata e come il rapporto tra settore pubblico e settore privato nella programmazione degli investimenti costituisce la sfida principale per l’innovazione e la crescita.
Abbiamo avuto, invece, in Italia un declino del capitale pubblico, fin dagli anni 80, nell’illusione di poter evitare le difficoltà di una pianificazione economica efficace attraverso forme di decentramento legate a procedimenti seriali di tipo amministrativo che cercano di combinare forme di governance nazionale e locale attraverso la cosiddetta programmazione per progetti. Secondo questo paradigma, che appare oggi prevalente anche nei tentativi attuali di immaginare gli investimenti necessari per la ripartenza, una entità astratta definita come il “progetto” è lo strumento di politica economica principale con cui si attribuisce all’autorità pubblica, a vari livelli, il compito di organizzare, in modo razionale e coerente con l’economia di mercato, la sua azione di medio periodo. Una logica altamente decentrata, ideologicamente motivata dal rigetto delle tentazioni di programmazione centralizzata e di invadenza attiva dello stato nella vita economica del paese. Questo approccio, tuttavia, come è evidente dal dibattito sul rilancio dell’economia, liquidando l’impianto tradizionale della pianificazione attraverso il venir meno della distinzione tra piani, programmi e progetti, ha contribuito alla scomparsa di ogni tentativo di disegnare il futuro attraverso piani economici adeguati. Allo stesso tempo esso è stato una delle determinanti della progressiva riduzione di capacità di gestione ed esecuzione dei progetti da parte delle amministrazioni, con la conseguente tendenza alla proliferazione di progetti di bassa qualità senza piani, e di piani di dubbia eseguibilità senza progetti.
Tornando alla crisi in corso, siamo davanti a elenchi di idee di varia natura (forse piani, forse programmi o forse progetti) vagamente definiti mediante “titoli” per possibili decreti legge, ma il riferimento ai due attuali obiettivi fondamentali di politica economica rimane affidato a un’eventuale analisi successiva.
Il primo obiettivo è quello di frenare, nell’anno in corso, la caduta del pil e dell’occupazione, cioè il quasi collasso dell’economia. Il secondo obiettivo è aumentare il tasso di crescita nei prossimi anni come condizione di sostenibilità di un debito oggi necessariamente in rapida crescita. Il primo obiettivo implica l’attuazione di un piano immediato dando priorità alle azioni che hanno un impatto prevedibile e misurabile per il conseguimento dell’obiettivo stesso. Ancora non è stato reso noto l’impatto stimato sul pil delle singole componenti di spesa dei 75 miliardi di debito aggiuntivo e quindi è difficile valutare la congruità delle scelte di ripartizione delle risorse. Il secondo obiettivo, l’aumento del tasso di crescita nei prossimi anni, richiede piani, programmi e progetti, le cui priorità ugualmente dovrebbero essere definite in base al loro impatto specifico sull’obiettivo di crescita nei tempi richiesti, e alle risorse limitate, qualsiasi sia il loro ammontare, che avremo a disposizione. Il coordinamento e la coerenza con i piani di rilancio europei non sono il fine ma gli strumenti necessario.
Ciò pone la questione centrale delle sedi istituzionali nelle quali la definizione dei piani, programmi e progetti deve essere concepita. Abbiamo assistito a un proliferare di sedi extraistituzionali a cui si chiede di contribuire a costruire l’azione di governo e a fornire proposte su ogni tema, senza che si capisca se si sta parlando di progetti, di programmi e a quali piani essi appartengano. Abbiamo letto, anche in sede normativa, di obiettivi senza definizione di strumenti e di strumenti senza chiarire quali siano gli obiettivi misurabili di breve e lungo periodo su cui valutare la loro efficacia. Ciò è favorito dal progressivo svilupparsi di una sorta di struttura tecnico-amministrativa parallela, sostanzialmente senza responsabilità, sovrapposta a quella istituzionale che fa capo, almeno per quelle centrali, ai ministeri della cui operatività i ministri hanno la responsabilità diretta.
A questo punto sarebbe bene uscire da possibili equivoci e capire quale amministrazione deve intestarsi l’onere e la responsabilità di pianificare, programmare e monitorare a livello del governo centrale. Crediamo che questa amministrazione debba essere fondamentalmente il ministero dell’Economia e delle Finanza nel cui ambito va riportata la funzione di programmazione. Anni fa fu effettuata la scelta di spostare il Dipartimento di programmazione economica, che nell’ambito del Mef assorbiva in parte le funzioni del vecchio Ministero del Bilancio e della Programmazione economica, alla presidenza del Consiglio. Ma la scelta non ha dato risultati apprezzabili per motivi tecnici prevedibili, in quanto è il Mef la sola sede tecnico- amministrativa dove l’attività di programmazione si può coordinare con l’attività di controllo della spesa, del suo finanziamento e della coerenza complessiva della politica di bilancio. In Germania, il piano è stato preparato dai ministri competenti, il Bundestag conta e il Cancelliere federale, cioè il capo del governo ha grande autorità, leadership e visibilità.