(foto LaPresse)

Le ombre francesi

Stefano Cingolani

Macron ha aiutato Conte in Europa, ma ora vuole mettere le mani sui grandi gruppi italiani. Complotto o fandonie?

A voi gli aiuti a noi le aziende. E’ questo il patto scellerato che si consuma sulle ceneri della pande-crisi? L’allarme arriva da Adolfo Urso, politico di lunga lena, ma sempre a destra (Fronte della gioventù, Msi, An, Popolo della Libertà). Ora è con Giorgia Meloni in Fratelli d’Italia, eletto al Senato ricopre un delicato ruolo istituzionale come vicepresidente del Copasir, il comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica. Il 4 giugno ha lanciato un tweet in stile trumpiano, che recita così: “Ma quanto è lunga la lista della spesa concordata con Macron? Borsa italiana, Mediobanca, Generali, Ubi, Avio, Fincantieri, Fca, Luxottica, Unicredit, Bnl”. Il fumo è alto e fitto, c’è anche arrosto? “Voglio che si capisca il rischio che corre il paese”, ha spiegato, “non c’è dubbio che la Francia di Macron sia stata molto utile all’Italia in questa fase, contribuendo all’apertura dell’Unione europea e della Bce, guidata da un’altra francese, Christine Lagarde, verso nuove forme di aiuti. Ma la domanda è: a che prezzo?”. Il Comitato a guida sovranista (presidente è il leghista Raffaele Volpi) sceglie come nemico numero uno l’intero complesso militar-finanziario-industriale transalpino.


Davvero l’Italia è vittima di un grande piano per impadronirsi dei settori strategici comprando a basso costo i gioielli di famiglia?


 

A sentire le audizioni delle “barbe finte”, come Francesco Cossiga chiamava gli uomini dei servizi segreti, e ancor più il dibattito dei parlamentari, l’Italia è vittima di un grande piano, se non vogliamo chiamarlo complotto, per impadronirsi dei settori strategici comprando a basso costo i gioielli di famiglia. Il progetto è in atto da anni: il punto di partenza dipende dal grado di eurofobia: chi dice da quando è stata introdotta la moneta unica, chi dalla crisi finanziaria del 2008, chi dall’attacco al debito sovrano del 2011, mentre i più attempati risalgono al primo grande pactum sceleris quello stretto sul Britannia lo yacht della regina Elisabetta il 2 giugno 1992 quando cominciò la “svendita” dell’Iri, o meglio dello stato industriale e banchiere. Allora il nemico era la finanza anglo-americana, poi sono arrivati i panzer tedeschi, ormai da molti anni la legione francese ha attraversato le Alpi. Uno dopo l’altro sono caduti il re del lusso, della moda, dell’industria, della finanza: da Bulgari a Loro Piana, da Edison a Parmalat fino alla Bnl; il culmine di questa scalata sarebbe adesso la cassaforte degli italiani, le Assicurazioni Generali. Lasciamo ancora la parola a Urso: “Apprendiamo, da un quotidiano, in una domenica di un lungo ponte, che è in atto ‘il colpo del secolo’: un fondo franco/lussemburghese acquisirà il controllo di Mediobanca, la più grande banca d’affari italiana da sempre in competizione con quella francese, operazione che a sua volta consentirà il controllo delle Assicurazioni Generali. Il quotidiano descrive in modo positivo l’operazione. E come poteva essere altrimenti?”, si chiede Urso. “La stessa proprietà del quotidiano è, infatti, impegnata in una grande fusione con una azienda francese, controllata dallo Stato, che assomiglia molto a quella che la stessa Luxottica/Delfin ha realizzato sempre con una azienda francese. Tutto questo dovrà essere soggetto alla autorizzazione della Bce, cioè di miss Lagarde. Se fosse un film francese lo chiameremmo il ‘colpo del secolo’”. A parte il miss, scorretto da tutti i punti di vista, Urso allude al quotidiano Repubblica e alla Fiat che, ormai diventata Fiat Chrysler, lavora alla fusione con la Peugeot Citroen; gli eredi Agnelli sarebbero azionisti principali (con un assegno da 700 milioni di euro), John Elkann presidente del nuovo gruppo, lasciando la guida il manager della Psa Carlos Tavares (portoghese, non francese). La futura società avrebbe sede in Olanda, come la Fca. EssilorLuxottica ha già un amministratore delegato francese mentre Leonardo Del Vecchio è presidente, la sede è a Parigi dove è quotata in Borsa. Sono le due più grandi aggregazioni industriali italo-francesi e le maggiori in Europa. Lo squilibro è evidente secondo i sovranisti. Jean Cocteau diceva che i francesi sono italiani di cattivo umore. Oggi anche gli italiani hanno cambiato umore, quindi à la guerre comme à la guerre.

 

Si odono a destra squilli di tromba, sembra quasi la rivincita sul trattato di Versailles che mise fine al primo conflitto mondiale e sancì la “vittoria mutilata” gettando benzina avrebbe sul fuoco nazionalista e poi fascista. Allora la Francia fece in modo di svalutare il successo di Vittorio Veneto, lo stesso avvenne con Charles de Gaulle che considerava ininfluente il ruolo dei partigiani italiani rispetto ai maquis francesi, alla faccia dei numeri e dei fatti: erano pochi in entrambi i casi, la maggior parte dei francesi subirono cinque anni di occupazione nazista, molti collaborarono attivamente anche alla deportazione degli ebrei protetti invece dall’esercito italiano che aveva occupato la zona sud-orientale da Nizza a Grenoble. Lo ricorda Alberto Toscano, giornalista italiano che vive a Parigi dal 1986 come corrispondente di diverse testate, tra le quali il Foglio degli esordi, nel suo libro “Gli italiani che hanno fatto la Francia, da Leonardo a Pierre Cardin”, appena pubblicato in Italia per la casa editrice Baldini e Castoldi (la versione originale è uscita a Parigi lo scorso anno). E’ una vicenda lunghissima di odio e amore segnata da rivalità, competizioni, sgambetti e tradimenti, ma anche da grandi passioni. Il seguito ideale sarebbe l’altro lato della storia, quella dei francesi che hanno fatto l’Italia: senza la Francia il Regno di Sardegna non avrebbe sconfitto gli austriaci nel 1859 e senza i quattrini francesi il nuovo stato unitario non avrebbe potuto sostenere l’ingente debito pubblico e pagare il grande piano di espansione della rete ferroviaria. Qui c’è il ruolo importante della finanza parigina e di un italiano, emigrato dopo la sconfitta della Repubblica romana nel 1849 (a opera dei francesi difensori del Papa) e diventato banchiere. Il suo nome è Enrico Cernuschi, esule milanese; nel 1869 fonda una delle principali banche francesi ed europee: Paribas poi diventata la Bnp che nel 2005 ha comperato la Bnl.


Francesi, europei investono non per benevolenza, ma per perseguire i loro interessi. In molte fasi della storia coincisero con quelli italiani


 

“La presenza italiana al di là delle Alpi è un formidabile affresco umano, culturale, economico e sociale”, scrive Toscano. “Milioni di donne e di uomini, in arrivo dalla penisola italiana, si sono stabiliti sul suolo transalpino dall’epoca di Leonardo da Vinci e anche da prima. E’ in Provenza che si possono oggi visitare le fonti delle chiare, fresche, dolci acque del Petrarca. Il flusso degli italiani verso la Francia non si è mai fermato, anche se le motivazioni e le condizioni variavano secondo le persone e i periodi storici, fino al grande esodo di massa del secolo successivo all’unità nazionale italiana”. Scrive lo storico Benjamin Stora nel volume “Ciao Italia! Un siècle d’immigration et de culture italiennes en France” (Ciao Italia! Un secolo d’immigrazione e di cultura italiane in Francia): “Le migrazioni provenienti dall’Italia hanno un posto centrale e unico nella storia di Francia a causa della loro anzianità, della loro permanenza e della loro importanza numerica. Ciò che colpisce prima di tutto è il carattere erroneamente banale di questa immigrazione, che certi descrivono come priva di una propria storia e che ha in realtà impregnato la civiltà francese dai tempi del Rinascimento”.

 

Lasciamo poeti, pittori, grandi geni dell’arte e della politica, abbandoniamo il ricordo di Leonardo e le due Medici Caterina e Maria, regine di Francia e madre di re, di Giulio Mazzarino e Giovan Battista Lulli, di Carlo Goldoni e Gioacchino Rossini (entrambi scrivono in francese i loro due capolavori più complessi, il Burbero Benefico e il Guglielmo Tell) o lo stesso Émile Zola messo in croce non solo perché amico degli ebrei e difensore del capitano Alfred Dreyfus, ma per le sue origini italiane (il padre veniva da Venezia). Dimentichiamoci di Ivo Livi da Monsummano Terme (in arte Yves Montand) o del bergamasco Pietro Costante Cardin, e scendiamo terra terra nel mondo della politica, degli affari, della guerra condotta con altri mezzi oltre che con le armi. Secondo Giorgio Armani, al quale Toscano ha chiesto una testimonianza, “noi italiani preferiamo forse una certa sveltezza, non indugiamo troppo nell’eccentrico, nell’ornato. E il nostro tocco essenziale, che sia la presentazione di una pietanza o la giacca indossata senza la cravatta, si riconosce subito, ovunque. Fa immediatamente pensare a quella nonchalance sorniona, tipicamente nostra. Sono convinto che sia proprio questo a farci amare. Il tratto di Italia nello stile francese è divergente, ma perfettamente amalgamato. Rompe gli schemi, aggiunge un pizzico di sorpresa, senza platealità e con molta naturalezza”.


“La presenza italiana al di là delle Alpi è un formidabile affresco umano, culturale, economico e sociale”, scrive Toscano


 

Se vogliamo addentrarci nei labirinti della mente, possiamo dire che c’è la stessa differenza tra René Descartes e Giambattista Vico, tra la logica deduttiva della razionalità astratta e le onde sinusoidali della storia. I francesi al comando di grandi imprese hanno un tratto in comune: verticalità (talvolta verticismo) e sistematicità. L’ésprit de geometrie ha forgiato l’élite delle grandi scuole. Detto questo, tra Philippe Donnet che guida le Assicurazioni Generali e Jean Pierre Mustier, l’amministratore delegato dell’Unicredit, c’è una gran differenza. Lo stesso può dirsi per la Edison dove la Edf che la controlla ha nominato al vertice un manager francese per 17 anni finché nel 2019 il bastone del comando è passato a un italiano. Imperiale è stata la presa del potere alla Parmalat assorbita completamente nel gruppo Lactalis controllato dalla famiglia Besnier. Ma quell’impero funziona, l’azienda fondata e poi affondata da Calisto Tanzi, ha mantenuto il marchio e la presenza sui mercati internazionali, oggi fattura oltre sei miliardi di euro. Dunque, anziché mettere tutto nel fascio del rancore e della rivalsa, occorre analizzare i singoli casi. Ciò vale in generale per i contraddittori rapporti tra l’Italia, come stato non solo come paese, e la Francia.

 

Facciamo un balzo all’indietro, agli anni immediatamente successivi alla unificazione italiana, prima sostenuta da Napoleone III e poi osteggiata dall’impresa dei Mille fino alla breccia di Porta Pia che vide i bersaglieri combattere baionetta in canna contro gli zuavi. L’Italia nasce nel 1861 fortemente indebitata non per colpa delle Due Sicilie, ma del Piemonte e delle guerre che aveva sostenuto. Le economie fino all’osso di Quintino Sella non bastano; i governi della Destra storica ricorrono alla emissione di prestiti irredimibili, l’alienazione di beni demaniali e delle ferrovie statali, la cessione di entrate future a imprese private, come ricorda Gino Luzzatto ne “L’economia italiana dal 1861 al 1894”. Il debito viene collocato a Parigi e Londra, si distinguono i Rothschild parigini e il Crédit Mobilier dei fratelli Péreire (dove Cernuschi si è fatto le ossa) che attraverso la Società Generale di Credito Mobiliare resterà una delle principale banche sul suolo italiano. Sia i Péreire sia i Rothschild finanziano ampiamente le ferrovie, cioè l’infrastruttura più importante per lo sviluppo del paese, in aperta concorrenza tra loro e non senza colpi bassi. “Si è detto che l’Italia è stata fatta col capitale straniero e questo risponde in gran parte a verità”, scrive Luzzatto.


I francesi al comando di grandi imprese hanno un tratto in comune: verticalità (talvolta verticismo) e sistematicità 


I flussi finanziari sono serviti a comperare debito pubblico (un terzo era in mani estere, due terzi collocato tra gli italiani, grosso modo come avviene ora), e per il resto alle ferrovie: seimila chilometri da aggiungere ai duemila allora esistenti, con un impiego stimato in un miliardo e mezzo di lire in dieci anni, una somma enorme se si pensa che il bilancio del Regno poteva contare su entrate annue di mezzo miliardo già insufficienti a coprire le spese militari e gli interessi. Investire 150 milioni l’anno da parte dello stato era impossibile. Centosessant’anni dopo non siamo forse in una situazione molto simile? Il debito è collocato sui mercati internazionali e per fare le infrastrutture abbiamo bisogno dei fondi europei. Francesi, europei, banchieri di tutte le bandiere non investono per benevolenza, ma per perseguire i loro interessi. In molte fasi della storia coincisero con gli interessi degli italiani. E’ così oggi che il vecchio ordine è sconvolto e il nuovo non è ancora nato?

 

La risposta non viene dal mondo degli affari, ma dalla geopolitica. Strano che il Copasir non si concentri proprio su questo. Eppure basta gettare uno sguardo a quel che accade in Libia (dove ai servizi segreti italiani le informazioni non mancano). La caduta di Gheddafi nel 2011 ha segnato il massimo del disaccordo tra Roma che avrebbe voluto tenerlo in sella ancora per un po’, arginando così i flussi migratori, e Parigi che lo voleva morto subito. Silvio Berlusconi allora alla guida del governo, e Nicolas Sarkozy, presidente interventista, si sono sempre detestati. Sono trascorsi nove anni di sgarbi e ripicche, non solo per il petrolio dove l’Italia con l’Eni resta prevalente rispetto alla Francia con la Total, ma per ragioni più ampie che riguardano gli equilibri post coloniali in quella che i francesi chiamano Françafrique e il rapporto con il mondo arabo che sta molto a cuore anche agli italiani. Ebbene, proprio in questi giorni stiamo assistendo alla disfatta parallela della Francia e dell’Italia, scalzate in Tripolitania dalla Turchia e in Cirenaica dall’Egitto sostenuto dalla Russia. Lo schiaffo di Tunisi del 1881 (con la Francia che soppiantò l’Italia) favorì il ribaltamento delle alleanze spingendo Francesco Crispi verso la Germania di Bismarck. Ne approfittò l’Inghilterra per occupare l’Egitto. Oggi è molto peggio. La rivalità franco-italiana apre le porte a due autocrazie che non avevano più nessun ruolo nell’Africa del nord: la Turchia dai tempi dell’Impero ottomano (perse la Libia nel 1911 per mano degli italiani) e la Russia dal crollo dell’Unione sovietica. Ciò ha una ricaduta anche nel gioco degli interessi materiali, ma non seguiamo l’economicismo e la vista corta dei sovranisti, guardiamo al lungo periodo come la scuola storica francese invita a fare. E nel lungo periodo, l’Italia e la Francia che si azzannano per qualche prelibato boccone, saranno entrambe irrilevanti.