La Sala dei Giganti è una delle più note stanze affrescate all'interno del Palazzo Te, progettato a Mantova da Giulio Romano (dett.)

Bufale da evitare per rendere sostenibili debiti insostenibili

Lorenzo Bini Smaghi

Il caso più virtuoso e il caso più spaventoso. Cosa deve fare un paese molto indebitato per non terrorizzare gli investitori

Nessun altro governo italiano, dal secondo Dopoguerra, ha avuto a disposizione così tanti fondi quanti quelli previsti per far fronte alla crisi provocata dal coronavirus. L’entità delle misure messe in campo e la facilità con la quale sono state reperite le risorse potrebbero addirittura dare l’impressione che non vi sia più alcun vincolo di bilancio, che si possa spendere senza limiti. Le risorse finanziarie non sono, tuttavia, manna caduta dal cielo. Gli interventi previsti vengono finanziati principalmente attraverso l’emissione di debito pubblico, a livello europeo o nazionale. Per l’Italia, l’impatto della crisi dovrebbe comportare un aumento del debito dal 135% del prodotto interno lordo nel 2019 a quasi il 160% stimato alla fine di quest’anno, un livello senza precedenti. In tale contesto, è legittimo chiedersi quali saranno le conseguenze, soprattutto per i contribuenti e per i risparmiatori, di questa evoluzione senza precedenti. In altre parole, “chi paga?”, o piuttosto “chi pagherà?” per questo debito. L’onere del debito dipende dal livello del debito pubblico, in rapporto al pil, e dai tassi d’interesse su questo debito. Ad esempio, i contribuenti italiani pagano più dei contribuenti di un paese a debito più basso, come la Germania (3,4% del pil nel 2019 contro lo 0,8%), perché il debito pubblico italiano è più elevato di quello tedesco (135% del pil contro il 60%). Inoltre, i tassi d’interesse italiani sono più alti di quelli tedeschi (ad esempio a metà giugno lo stato italiano si indebitava a 10 anni pagando l’1,4% contro il -0,4% dello stato tedesco).

 

Negli ultimi cinque anni, l’onere del debito italiano è sceso (dal 4,6% al 3,4% del pil), nonostante l’ammontare di debito sia aumentato (dal 131% al 135% del pil). Ciò è stato possibile grazie al calo dei tassi d’interesse, favorito dall’ampio risparmio globale e dalla politica monetaria espansiva messa in atto dalla Bce, che ha più che compensato l’aumento dello stock di debito. Inoltre, l’attuazione del Quantitative easing ha portato la Banca d’Italia a detenere a fine 2019 circa il 17% del debito pubblico italiano. Gli interessi percepiti su quel debito sono stati in larga parte retrocessi allo stato italiano, alleggerendo ulteriormente l’onere per i contribuenti. In sintesi, negli ultimi anni il debito italiano è aumentato lievemente ma senza gravare finora sui contribuenti, perché i risparmiatori hanno accettato tassi d’interesse più bassi sui titoli di stato, in parte perché gli investimenti alternativi avevano rendimenti ancor più bassi.

 

La differenza tra i due scenari dipenderà soprattutto da tre fattori: la crescita, la politica di bilancio e la fiducia dei mercati finanziari

Cosa ci si può aspettare per i prossimi anni? Data la profondità della crisi, le condizioni di eccesso di risparmio globale dovrebbero continuare a prevalere, senza che si manifestino pressioni inflazionistiche. La politica monetaria dovrebbe rimanere fortemente espansiva, almeno nel prossimo biennio, con tassi d’interesse prossimi allo zero o negativi. Il proseguimento della politica di acquisto di titoli di stato, anche se a un ritmo inferiore a quello attuale, dovrebbe aumentare ulteriormente la quota del debito pubblico detenuto dalla Banca d’Italia, incrementando la parte degli interessi retrocessa allo stato. Pertanto, l’aumento del debito pubblico previsto nel prossimo biennio non dovrebbe gravare eccessivamente sui contribuenti. Saranno soprattutto i risparmiatori a dover accettare rendimenti bassi. D’altra parte, non hanno alternative molto più appetibili. Il Bund tedesco, ad esempio, con scadenza a 10 anni ha un rendimento addirittura negativo.

  

La questione rilevante riguarda piuttosto la situazione dopo-crisi, cioè il livello di debito e dei tassi d’interesse una volta finita l’emergenza, e venute meno le politiche espansive messe in atto dalle banche centrali. La domanda da porsi è se tra due-tre anni lo stato riuscirà a rifinanziarsi alle stesse condizioni di quelle attuali oppure se dovrà emettere titoli con rendimenti sempre più alti. In questo caso, dato il livello del debito italiano, l’onere per i contribuenti potrebbe salire rapidamente, diventando insostenibile. Cosa succederà a quel punto? Come verranno pagati gli interessi sul debito pubblico? Sarà necessaria una nuova fase di austerità, con aumenti di tasse e tagli di spesa?

 

Nello scenario virtuoso, l’Italia si finanziarà in modo sostenibile una volta esaurite le condizioni monetarie favorevoli. Con un ma

I contribuenti e gli investitori di tutto il mondo si pongono proprio queste domande, per capire se investire o meno in titoli di stato italiani. Per rispondere, bisogna esaminare due scenari distinti. Nel primo, che potremmo definire “virtuoso”, lo stato italiano continuerà a finanziarsi in modo sostenibile anche una volta esaurite le condizioni monetarie estremamente favorevoli. Nel secondo caso, che potremmo definire “perverso”, il debito pubblico e i tassi d’interesse aumenteranno entrambe, in modo insostenibile, creando le condizioni per lo scoppio di una possibile crisi finanziaria. La differenza tra i due scenari dipenderà principalmente da tre fattori, tra loro interconnessi: le prospettive di crescita dell’economia italiana, la politica di bilancio messa in atto in questi mesi dal governo e la fiducia dei mercati finanziari.

 

Cominciamo dalla crescita economica. Per favorire la sostenibilità del debito pubblico, il ritmo di crescita deve essere superiore al livello dei tassi d’interesse. In ambito europeo, le condizioni dovrebbero rimanere relativamente favorevoli, anche nel caso di una uscita progressiva dall’impostazione estremamente espansiva della politica monetaria da parte della Bce. Per l’Italia, la vera sfida sarà quella di raggiungere un ritmo di crescita in linea con quello degli altri paesi europei, superiore al livello dei tassi d’interesse. Questa condizione non si verifica da tempo. L’Italia è sistematicamente cresciuta meno della media dell’area dell’euro sia prima della crisi del 2008-09 sia nel periodo successivo. E’ l’unico paese, oltre alla Grecia, a non avere recuperato il livello di reddito anteriore alla precedente crisi. Il motivo della divergenza è noto: riguarda i lacci e lacciuoli che frenano l’economia italiana, la composizione squilibrata del bilancio pubblico tra spese correnti e investimenti, l’evasione fiscale, ecc. Le misure che dovrebbero essere adottate per correggere queste distorsioni sono note e vengono elencate, a grandi linee, in tutti i programmi nazionali di riforma presentati, anno dopo anno, dai successivi governi. Questi annunci vengono tuttavia sistematicamente disattesi, con poche eccezioni. Il risultato è che il divario tra il reddito medio italiano e quello degli altri paesi è peggiorato. Qual è la probabilità che questa tendenza si inverta nei prossimi anni? Quali misure concrete potranno essere prese rapidamente per rafforzare il potenziale di crescita dell’economia italiana? Queste sono le domande che bisogna porsi per capire se lo scenario virtuoso ha una probabilità elevata.

 

Il secondo fattore da esaminare per valutare l’ipotesi virtuosa riguarda la struttura dell’intervento di finanza pubblica messo in atto in questi mesi per affrontare la crisi. Per essere sostenibile, ed evitare successive misure correttive, la Manovra di bilancio dovrebbe essere mirata soprattutto a contrastare gli effetti immediati della recessione, attraverso misure che si attenuano nel tempo, man mano che l’economia riprende. Ciò richiede un piano pluriannuale, dal quale si possa evincere la progressiva convergenza dell’indebitamento su livelli sostenibili. Esaminando le misure di finanza pubblica adottate di recente dal governo, non si può non notare come alcune di queste abbiano natura permanente e non siano strettamente legate alla crisi, creando un problema per la sostenibilità del debito pubblico italiano, se non vengono compensate nel tempo con azioni correttive. Ad esempio, l’eliminazione prevista delle clausole di salvaguardia per il 2021 significa che gli aumenti di spesa pubblica decisi in passato, che non avevano copertura, come gli 80 euro, Quota 100 e il Reddito di cittadinanza, verranno finanziati a debito. Anche le misure dei decreti “Salva Italia” e “Rilancio”, e quelle a venire, che comportano aumenti permanenti di spesa corrente, come le assunzioni di personale a tempo indeterminato nella Pubblica amministrazione, comporteranno aumenti di debito pubblico permanenti, in assenza di misure fiscali correttive.

 

Il terzo fattore dipende dalle condizioni dei mercati finanziari. Questo riguarda due componenti, i tassi d’interesse sulle attività meno rischiose, come i titoli di stato tedeschi, e il cosiddetto “rischio Italia”. Per quel che riguarda la prima componente, i mercati globali dovrebbero rimanere caratterizzati da rendimenti bassi, come negli ultimi anni, nonostante l’ampia liquidità creata dalle politiche monetarie molto espansive. Non è da escludere tuttavia che la grande quantità di moneta prodotta in questi anni possa prima o poi incanalarsi nel sistema produttivo e creare nuove pressioni sui prezzi di beni e servizi. In questo caso, si potrebbe registrare negli anni un progressivo aumento dei tassi d’interesse. E’ da notare come l’attuazione delle recenti misure monetarie della Bce abbia fatto risalire i tassi a lungo termine tedeschi.

 

Per quel che riguarda il premio di rischio sui titoli italiani, l’evoluzione dipenderà strettamente dai fattori indicati prima, ossia dalla crescita economica e dalla struttura del bilancio pubblico. In sintesi, se l’Italia sarà capace nei prossimi mesi di adottare misure strutturali che consentano di aumentare significativamente il potenziale di crescita economica e se le misure di bilancio saranno temporanee e mirate soprattutto agli investimenti, piuttosto che alla spesa corrente, l’aumento previsto del debito pubblico italiano potrà rimanere limitato e una tantum, intorno al 160% del pil come indicato da varie istituzioni internazionali, e ridursi successivamente, rispetto al prodotto lordo. In questo scenario, i tassi d’interesse sui titoli di stato italiani rimarrebbero contenuti e, di conseguenza, l’impatto sui contribuenti sarebbe limitato. Questo scenario benigno non è tuttavia privo di rischi. Già prima della crisi, alla fine del 2019, il Fondo monetario internazionale stimava che il debito pubblico italiano non sarebbe calato nei prossimi anni. Questa crisi rischia di produrre non solo un aumento del livello complessivo del debito ma anche della dinamica incrementale. In questo caso, il premio di rischio sui titoli di stato italiani potrebbe salire su livelli insostenibili, creando problemi di accesso ai mercati finanziari.

  

A quel punto, vi sarebbero sostanzialmente tre possibili soluzioni. La prima sarebbe quella di fare ricorso allo strumento straordinario di intervento della Bce, che consiste nel “fare tutto il necessario” (“Whatever it takes”), acquistando anche quantità illimitate di titoli di stato italiano, per evitare un aumento dello spread che potrebbe spingere il paese fuori dall’unione monetaria. Tuttavia, l’attivazione dell’Omt (Outright monetary transactions) è condizionata a un programma di risanamento concordato con il Meccanismo europeo di stabilità (Mes). Ciò consentirebbe all’Italia di indebitarsi a tassi più bassi, ma il paese dovrebbe impegnarsi a effettuare le riforme strutturali, da tempo promesse ma mai realizzate, per fare in modo che la crescita economica sia in linea con quella degli altri paesi. Come si è visto dalla recente discussione sulla Covid facility del Mes, che viene respinta da un’ampia fascia del Parlamento italiano su basi pregiudiziali, il ricorso al Mes viene considerato politicamente “tossico” in Italia. Chi investe in titoli di stato italiani non può non tenere conto di questo aspetto pregiudiziale. La seconda soluzione sarebbe quella di ridurre il valore del debito pubblico, attraverso un’operazione finanziaria di ristrutturazione del debito, ad esempio con l’allungamento forzato delle scadenze dei titoli di stato. Ciò significherebbe che lo stato non rimborserebbe i titoli alla loro scadenza ma solo dopo molti anni, con un tasso d’interesse più basso. Questa operazione determinerebbe una perdita del valore effettivo dei titoli, con ripercussioni rilevanti per le istituzioni finanziarie e per i risparmiatori. La terza soluzione, se non si vuole far ricorso almeno inizialmente ad aiuti esterni, sarebbe quella di convertire il debito in un’altra valuta, ad esempio la lira, diminuendone così il valore. Ciò comporterebbe l’uscita del paese dall’unione monetaria. La Banca centrale italiana potrebbe a quel punto acquistare titoli di stato, in particolare quelli venduti dai non residenti, provocando un forte deprezzamento della moneta, con effetto immediato sui prezzi dei prodotti importati. Questo scenario richiederebbe anche l’adozione di una serie di misure mirate a limitare la possibilità dei residenti italiani di investire in attività finanziarie estere, attraverso controlli sui movimenti di capitali. Queste tre soluzioni prefigurano una forte instabilità finanziaria. A pagare il conto, in quel caso, sarebbero i risparmiatori che hanno acquistato titoli di stato italiano. Ma gli effetti sarebbero devastanti per l’intera economia italiana.

  

La tesi secondo cui ciascun paese possa emettere tutto il debito che vuole, “tanto c’è la BCE” che lo compra, appare alquanto ingenua

E’ stato sostenuto, nel dibattito politico italiano, che questi scenari critici potrebbero essere evitati, o attenuati, se venissero adottate soluzioni “alternative” o “innovative”. Esaminiamone brevemente alcune. La prima soluzione sarebbe che la Bce continui ad acquistare titoli di stato italiani, senza condizioni e in quantità tali da non creare alcun problema per il rifinanziamento del debito pubblico italiano. Se tale scenario appare ragionevole nel breve periodo, per la durata della crisi, appare invece irrealistico nel medio periodo. Man mano che l’economia europea si riprenderà, l’intervento della Banca centrale in acquisto di titoli di stato dei paesi membri diventerà meno intenso. Sebbene ci si possa aspettare che i titoli detenuti nel bilancio delle banche centrali vengano reinvestiti alla scadenza, la dimensione dei nuovi acquisti tenderà a scemare nel tempo. Un intervento della Bce esclusivamente a favore dei titoli italiani sarebbe difficilmente giustificato. La tesi secondo cui ciascun paese possa attualmente emettere tutto il debito che vuole, “tanto c’è la Bce” che lo compra, è alquanto ingenua. Per potere acquistare titoli di stato di un paese in modo duraturo e più significativo degli altri paesi, la Bce avrà comunque bisogno di una copertura, attraverso il ricorso al Mes, come ricordato prima.

  

Un’altra soluzione innovativa discussa di recente sarebbe quella di cancellare il debito pubblico detenuto dalla Bce e dalle banche centrali dei paesi dell’area dell’euro nel loro bilancio. Ciò creerebbe una perdita in conto capitale alle banche centrali, ma non impedirebbe la loro operatività. Anche questa tesi è alquanto fantasiosa. Violerebbe le regole di trattamento paritario dei creditori e il divieto di finanziamento monetario incardinato nel trattato. Si tratterebbe di un esproprio che minerebbe la credibilità della Bce e dell’euro, che forse è proprio l’intenzione dei proponenti. Una terza soluzione, che sembra avere acquisito di recente un certo sostegno politico, è emettere titoli di debito pubblico riservati ai risparmiatori italiani, con scadenza molto lunga – magari infinita, come nel caso di titoli perpetui – al fine di “mobilitare” il risparmio nazionale. Si tratta di “ingegneria finanziaria” che maschera l’intenzione di espropriare i risparmiatori. Penalizzerebbe anche i contribuenti italiani per i seguenti motivi. Innanzitutto, non è possibile in un mercato finanziario integrato discriminare tra risparmiatori italiani e stranieri. Anche se si vuole dare un vantaggio ai primi, attraverso un forte incentivo fiscale, a pagare sarebbero comunque i contribuenti per compensare le minori entrate fiscali derivanti dall’incentivo. Inoltre, l’evidenza mostra che i risparmiatori italiani non sono più ingenui, o più “amanti del rischio” di quelli stranieri, e sono disposti ad acquistare titoli di debito se sono convinti della solidità delle finanze pubbliche del loro paese. Essi tendono peraltro a sospettare di operazioni puramente finanziarie che possono nascondere il rischio di un esproprio futuro. Per questo, le emissioni cosiddette patriottiche tendono a comportare rendimenti elevati, che finiscono per aumentare il costo per i contribuenti.

  

I titoli di stato perpetui? Si tratta di “ingegneria finanziaria” che maschera l’intenzione di espropriare i risparmiatori

Un simile problema hanno i titoli perpetui, ossia senza scadenza. Chi li propone si rifà a esperienze limitate di situazioni post-belliche e di rapida crescita economica,che niente hanno a che vedere con le condizioni attuali dell’economia italiana. Si ignora peraltro l’evidenza dei mercati finanziari, che mostra come il premio di rischio aumenti in funzione della scadenza dei titoli, per il semplice fatto che un titolo a lungo termine è più rischioso di un titolo a breve termine. Basta consultare un qualsiasi terminale informatico. A metà giugno di quest’anno il rendimento di un titolo con scadenza a 5 anni (0,8%) era più basso di quello a 10 anni (1,4%) e ancor più di quello a 20 anni (2,1%). Un titolo senza scadenza avrebbe un tasso ancora più elevato di quelli a breve termine, necessario per convincere i risparmiatori – italiani e non – ad acquistarlo e per compensare il costo di illiquidità e il rischio di insolvenza. Di sicuro, il costo per i contribuenti aumenterebbe.

  

Non sorprende che questa proposta venga sostenuta da chi vuole aumentare il debito pubblico. Sorprende invece che sia difesa da chi ha come compito la tutela del risparmio. In un paese attento ai risparmi dei propri cittadini, queste ipotesi strampalate dovrebbero essere ignorate, al massimo derise. Non è un caso che non vi sia traccia di tali discussioni in altri paesi europei. Da noi, invece, il dibattito pubblico tende a soffermarsi su tematiche talvolta astruse, senza affrontare i veri problemi che riguardano la sostenibilità delle finanze pubbliche del paese. L’obiettivo, forse, è proprio quello di evitare di dare una risposta alla domanda fondamentale: “Chi paga?”. Ma senza una risposta convincente a questo legittimo quesito si alimenta il timore che il costo sarà elevato, non solo per le future generazioni. Questa infatti è la storia degli ultimi venti anni, che rischia di ripetersi.

  

Se l’Italia sarà capace di adottare misure strutturali che consentano di aumentare il potenziale di crescita economica e se le misure di bilancio saranno temporanee e mirate agli investimenti, l’aumento previsto del debito pubblico potrà rimanere limitato, intorno al 160 per cento del pil, e ridursi successivamente.

Di più su questi argomenti: