Le scuse mancanti 10 anni dopo Pomigliano
Politici, sindacati, media e il referendum rimosso. Parla Bentivogli
Roma. “Su questo no comment, ho già detto ciò che avevo da dire”. Marco Bentivogli, segretario dimissionario della Fim, parla con il Foglio a patto che non si parli delle sue dimissioni inaspettate da leader dei metalmeccanici dopo 25 anni di militanza e ruoli di vertice nella Cisl. L’uscita di scena di Bentivogli coincide, ed è di questo che parleremo, con il decennale di una pagina storica delle relazioni industriali del paese: il referendum del 22 giugno 2010 sul nuovo contratto Fiat nello stabilimento di Pomigliano d’Arco, in cui il “sì” vinse con oltre il 60 per cento dei consensi.
Da un lato i sindacati riformisti, che avevano siglato il 15 giugno un contratto innovativo con alcune deroghe dal contratto collettivo nazionale, dall’altro il massimalismo della Fiom guidata dall’attuale leader della Cgil Maurizio Landini che contestava in radice la legittimità dell’accordo.
“Riaprimmo una partita che la Fiom aveva già chiuso – ricorda Bentivogli –. E anche la Fiat, che aveva già chiuso Termini Imerese, dopo il no della Fiom si era alzata dal tavolo. Chiedemmo una sospensiva, si fece una riunione con le altre organizzazioni che non erano la Fiom e sostanzialmente Giuseppe Farina andò a spiegare che la trattativa poteva continuare. Questo spiazzò letteralmente l’azienda, che si aspettava un no corale di tutto il sindacato anche come alibi per poter chiudere. Dopo Pomigliano sarebbe toccato a Cassino, Melfi e Mirafiori… in quel periodo le vendite di auto si erano dimezzate. Rebaudengo, capo delle relazioni industriali Fiat, chiamò Marchionne, che considerava Pomigliano già chiuso, per dirgli che c’era un pezzo di sindacato che voleva negoziare. E si riaprì la partita”.
Che poi fu vinta tra i lavoratori. “La Fiom dice nel suo statuto che firma gli accordi che non condivide se sono stati approvati dai lavoratori, in quel caso il referendum fu stravinto e non lo firmò lo stesso. Come dire, riconosco il voto dei lavoratori solo se mi dà ragione”. Fu una battaglia durissima, cosa voleva Marchionne? “Nel merito, l’azienda chiedeva cose già firmate unitariamente in centinaia di altri accordi, ma lì ci furono i riflettori mediatici che garantivano una grande popolarità a Marchionne in negativo e in positivo a chi era contro di lui”. Da vivo non era molto amato. “I modi di Marchionne erano duri, spesso non erano i più adatti a spiegare le cose, e poi è uno che ha rotto schemi consolidati anche in Confindustria. Ma fu un elemento di garanzia, perché senza di lui e senza gli accordi sindacali la proprietà in Italia avrebbe dismesso tutto da tempo”.
Marchionne voleva introdurre un modello di organizzazione del lavoro, il Wcm-World class manufacturing, già sperimentato in numerosi stabilimenti del gruppo in altri paesi, per aumentare la produttività dello stabilimento. “Sembrava una cosa impossibile, Pomigliano era ricordato per essere uno degli stabilimenti più inefficienti, dopo quell’accordo ha in poco tempo vinto premi in tutto il mondo come impianto più produttivo”. Bentivogli ricorda che questo esito non era affatto scontato e che in pochi all’epoca credevano nell’accordo. “Sia a Pomigliano che a Mirafiori tutta la stampa era contro. Persino la Stampa di Torino, di proprietà aziendale, era molto fredda. Negli Stati Uniti i nostri colleghi della Uaw (il sindacato del settore automobilistico, ndr) che avevano fatto un accordo in cui si sono addirittura ridotti i salari avevano salvato il lavoro ed erano eroi, noi invece eravamo traditori, ci hanno assaltato e incendiato le sedi e abbiamo avuto dirigenti sotto scorta. Oggi il minimo salariale in Fca è più alto che in Federmeccanica”.
E’ la storica divisione tra riformismo e massimalismo, nella sinistra e nel sindacato. “Ma è anche un problema dell’informazione italiana, che ancora oggi non si scusa con il sindacato riformista. Si disse che quell’accordo era ‘scritto nella carne e nel sangue del lavoratori’. Oggi sarebbe ora di chiedere scusa, perché quegli accordi hanno salvato l’automotive”. Qual è la lezione? “La sinistra iniziò a perdere da lì, non capì che i lavoratori erano più maturi di loro, perché la precondizione dei diritti contrattuali è avere il lavoro.Un contratto con la fabbrica chiusa è un testo morto. E quel caso dimostra che non si risolvono le crisi industriali se non si affronta il nodo della produttività con tre ingredienti: nuova organizzazione, tecnologie e competenze”. A 10 anni di distanza e con la sua uscita di scena è quella una pagina che si può ormai ritenere chiusa per il sindacato riformista? “No, sono contento che tra le ultime cose abbiamo ottenuto due rappresentanti dei lavoratori nel nuovo cda di Fca e Psa, è il compimento del lavoro di allora. Il referendum di Pomigliano resta una pagina in cui le relazioni industriali sono state risolutive dei problemi concreti dei lavoratori, trasformando uno stabilimento destinato alla chiusura in una tra le fabbriche più belle e innovative al mondo”.