E se ora anche le aziende puntassero sulla filosofia?
Reti, società di lobbying e comunicazione istituzionale, ha dato vita a un progetto con un pool di filosofi per “trovare un equilibrio tra astrattezza e concretezza”. Parla Giusi Gallotto
Qualche giorno fa Sergio Belardinelli ha scritto sul Foglio che l’università italiana in epoca di coronavirus è tutta presa da pratiche esigenze riorganizzative – quando e come riaprire le aule, se e in che modo mixare didattica frontale e piattaforme di e-learning –, mentre sempre più si trova a eludere le discussioni sul senso stesso dell’istituzione universitaria. Con il risultato che tutti oramai hanno accantonato l’idea che l’università “risponda a un progetto sintetico di produzione e di diffusione di un sapere ‘alto’”, e danno per scontato “il ripiego sui cosiddetti percorsi professionalizzanti persino nei dipartimenti umanistici o in quelli di matematica”. Belardinelli, seppur provocatoriamente, pregusta l’idea di insegnare in un corso di laurea dal cui titolo si espliciti che “non serve a niente”, e si lancia in una previsione: “Nei prossimi anni saranno proprio quegli studenti che avranno avuto una formazione capace di andare oltre l’ambito piuttosto angusto dei saperi professionalizzanti ad avere maggiori chance di entrare con successo nel cosiddetto mercato del lavoro”.
Detta così può sembrare una provocazione di lungo periodo destinata, magari, a segnare i percorsi universitari delle generazioni a venire. Eppure già adesso c’è chi, tra le aziende private, cerca di trarre dalla tradizione e dal portato delle scienze umanistiche nuova linfa per ripensare i modelli di business, per piegare l’incertezza del periodo storico a nuove sfide da esplorare. Reti, società di lobbying con anni di esperienza nella comunicazione e nelle relazioni istituzionali, ha lanciato un nuovo servizio per i propri clienti: la possibilità di affiancare al management delle aziende un pool di docenti di filosofia per “ripensarsi e ridefinire l’azione, partendo dal pensiero”, come spiega al Foglio il ceo di Reti, Giusi Gallotto. Ne fanno parte Bruno Montanari (professore ordinario di Filosofia del Diritto e Teoria generale del Diritto presso l'Università Cattolica di Milano e l'Università degli Studi di Catania), Gabriele Molinari (partner Goldenshare Advisor), Alessio Lo Giudice (professore ordinario di Filosofia del Diritto presso l'Università degli Studi di Messina), Alberto Andronico (professore ordinario di Filosofia del Diritto presso l'Università degli Studi di Catania), Valentina Chiesi (dottoranda in Filosofia del Diritto presso l'Università del Sacro Cuore di Milano) e Giovanni Magrì (professore abilitato di Filosofia del Diritto).
“Il progetto nasce, in un’ottica di responsabilità sociale di azienda, da due riflessioni: da una parte la volontà di valorizzare le 'reti' che danno il nome alla nostra compagnia come sistemi di interdipendenza e collegamento, occasioni di scambio tra contesti e discipline diverse. E dall’altro la necessità che abbiamo percepito, da parte delle aziende, di ricreare un senso di comunità, non soltanto di reagire ma di agire, anche perché le nuove modalità di lavoro agile hanno prodotto un senso di smarrimento”, racconta Gallotto. “Un’azienda che sa ripensarsi e sa ridefinire dove deve andare è anche capace di avere più chiari gli obiettivi di business e quindi di policy". Come funzionerà l'iniziativa? “L’idea non è quella di fare delle lezioni di filosofia in senso stretto, facendo salire in cattedra i filosofi o riportando i lavoratori e i professionisti sui banchi di scuola. Il nostro non è un approccio strettamente scolastico. E’ più una sfida. L’obiettivo non è insegnare l’azienda a pensare, ma porre l’accento sul tema della crisi del pensiero. In un momento in cui l’emergenza ci ha portato a un salto nell’innovazione e nell’utilizzo degli strumenti digitali, può sembrare un azzardo scommettere sulla tradizione. Invece no, l’idea è trovare un equilibrio tra una scienza umana come la filosofia tradizionale, però inserita in un contesto di novità”. La volontà è quella di non perdersi dietro a esercizi puramente speculativi, ma di ancorare la riflessione a risoluzioni pratiche a cui le aziende possano attingere in maniera puntuale. “Un equilibrio tra astrattezza e concretezza, che in questo caso non sono in contrapposizione”, come lo definisce Gallotto. In grado di fornire strumenti per affrontare non solo la stretta contingenza, ma di interfacciarsi con tematiche sensibili come i cambiamenti climatici e la rivoluzione tecnologica.
La scorsa settimana lo Svimez ha pubblicato una stima secondo cui il prossimo anno accademico potrebbero mancare circa 10 mila immatricolazioni, di cui oltre 6 mila nelle regioni meridionali. E’ il segno, se mai ce ne fosse stato bisogno, che in una fase di crisi l’istruzione universitaria viene considerato un bene facilmente sostituibile. Un paradosso, se si pensa a quanto i percorsi didattici negli ultimi decenni siano mutati per incentivare un incontro con il mercato del lavoro. “L’università vive un po’ i due estremi, o troppa teoria o troppa pratica. I neolaureati spesso hanno molte nozioni teoriche e difficoltà nel lavoro quotidiano, mentre nei master manca una base più nozionistica necessaria all’espletamento dell’attività pratica. Il modello che abbiamo in mente si mette proprio al centro e crea un equilibrio tra queste due esigenze. Lo stesso dovrebbe fare l’università, e i master dovrebbero essere un rafforzamento del processo di professionalizzazione che è già stato fatto prima. È fondamentale un dialogo tra docenti e manager aziendali per poi fare incontrare domanda e offerta di competenze. Troppo spesso osserviamo queste lacune del sistema formativo”, conclude Gallotto.
Chissà che l'esempio di Reti non diventi alla fine un altro punto a favore di chi sostiene che è studiando filosofia che si trova lavoro.