Il modello coop è al capolinea, ma per Cattolica è anche un bene
Generali pone come condizione per il suo ingresso la trasformazione in Spa. Resti e Santorsola spiegano perché è inevitabile
Milano. Chissà se la reazione a dir poco entusiastica della Borsa – ieri il titolo di Cattolica ha guadagnato il 38 per cento arrivando a sfiorare 5 euro per azione – basterà a persuadere i soci veneti del gruppo assicurativo, fondato a Verona il 27 febbraio 1896 sotto forma di società cooperativa, a considerare la trasformazione in spa come un’evoluzione dei tempi, quelli in cui la stabilizzazione finanziaria passa attraverso potenti iniezioni di capitale. E in casi come questo, in cui il gruppo Generali ha messo (per ora) sul piatto 300 milioni di euro per diventare primo azionista con una quota del 24,4 per cento, è inevitabile che venga chiesta in cambio la possibilità di guidare la governance. Il rammarico di chi ha creduto fino all’ultimo nel modello cooperativistico, molto amato sui territori ma ormai in via di estinzione in Italia dopo la riforma delle banche popolari e delle Bcc, è comprensibile se non confligge con l’obiettivo di mettere Cattolica nelle condizioni di attraversare indenne l’attuale fase di mercato.
“Mi sembra che l’operazione, oltre che dell’effervescenza a cui la finanza italiana ci ha abituato ogni volta che si parla di Generali, sia figlia anche della crisi economica ai tempi del Covid – dice al Foglio Andrea Resti, economista della Bocconi e advisor del Parlamento europeo per la vigilanza bancaria – Con il pil in predicato di ridursi del 12 per cento, ricordiamoci che sparisce uno stipendio su otto, le famiglie vendono l’argenteria e le cooperative si vendono la contendibilità, accettando di diventare scalabili e dunque più appetibili per i grandi investitori. L’esperienza delle popolari venete, peraltro, ci ha insegnato che ad aprire troppo tardi al mercato si finisce come certe signorine attempate, per cui offerta e domanda sono destinate a non incontrarsi mai”.
Dunque, è il mercato a richiedere quella che nella base dei soci di Cattolica (24 mila di cui la maggioranza veneti) è avvertita come una trasformazione epocale, dopo oltre 120 anni di storia in cui ha resistito uno statuto fondato sulla dottrina sociale della Chiesa e che prevede ancora oggi come condizione per diventare soci la professione della fede cattolica. Un caso unico in Italia, che in Veneto, e non solo, ha generato ricchezza prima e dopo l’esordio in Borsa avvenuto nel 2000, ma che, come spiega Resti, si è dovuto confrontare con regole di vigilanza stringenti (Solvency2) “che rendono più oggettiva la misura dei rischi e quindi più evidenti le potenziali carenze patrimoniali conseguenti all’incremento dei rischi con la pandemia”.
Per la verità, la crisi d’identità in Cattolica è cominciata da qualche anno, con l’ingresso nel capitale del finanziere americano Warren Buffet, le cui mosse oggi sono tenute sotto stretta osservazione (resterà o approfitterà del rally del titolo per uscire?). Lo scontro ai vertici che ne è conseguito sugli indirizzi strategici, che ha portato alle dimissioni dell’ex ad Alberto Minali, era il segnale che quel modello cominciava a scricchiolare. “Non c’è dubbio che siamo di fronte alla fine del modello cooperativistico che in Italia resiste solo per casi eccezionali, come la Popolare di Sondrio, e per le banche popolari di piccola taglia – spiega Giuseppe Santorsola, ordinario di corporate e investment banking all’Università Parthenope –. Anche nei recenti salvataggi bancari, vedi i casi Carige e Popolare di Bari, è stato necessario andare oltre questo schema per stimolare l’arrivo di nuovi investitori e, in ogni caso, per favorire la stabilità e la crescita di realtà finanziarie altrimenti decotte. E questo secondo un indirizzo europeo a cui anche l’Ivass, l’Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni, si è allineato. Quello che resta è una battaglia che definirei sentimental-finanziaria di un mondo che, a torto o a ragione, è in via d’estinzione per far posto a logiche di mercato”. Santorsola calcola che, nonostante il rally del titolo Cattolica, il gruppo Generali è in termini di capitalizzazione di mercato 24 volte più grande della compagnia veronese. “Sarebbe fin troppo facile ipotizzare che in prospettiva Trieste possa voler inglobare Cattolica, come suggerirebbe la sua storia quando è diventato primo azionista, ma si vedrà. Anche perché il mondo veronese non è totalmente fuori gioco”.