London Stock Exchange, che possiede Borsa italiana, deve cederla (dice l’Antitrust europeo) per seguire nuovi obiettivi. Francesi interessati, ma il governo medita su una soluzione nazionale (via Cdp). Opinioni a confronto
Milano. Tornare in mani (pubbliche) italiane o prendere parte al progetto del mercato unico europeo dei capitali, magari alleandosi con il gruppo franco-olandese Euronext? Il futuro di Borsa italiana si gioca tra queste due vie e la ricerca di un possibile punto di incontro a cui sta lavorando Palazzo Chigi che punta ad ampliare il suo spazio di intervento attraverso l’esercizio della golden rule, ma non solo. Nei giorni scorsi, il London Stock Exchange ha ufficializzato l’intenzione di cedere Piazza Affari per poter completare l’acquisizione della piattaforma Refinitiv – l’ex divisione di Thomson Reuters per i servizi finanziari informativi – e arrivare così a realizzare l’ambizione più grande: dar vita a un nuovo polo mondiale alternativo all’americana Bloomberg. Disfarsi di Borsa italiana e della sua piattaforma avanzata per il trading dei titoli di stato – Mts – è la condizione posta dall’Antitrust europeo alla Borsa di Londra che, pur di lanciare il guanto di sfida a New York, ha rinunciato due anni fa a un’offerta economicamente vantaggiosa da parte del gestore di Hong Kong ma che sarebbe stata difficile far digerire all’Europa persino in un’ottica Brexit. Così, l’acquisizione per 27 miliardi di dollari di Refinitiv è diventata l’unica strada che Lse può percorrere per fare un grande salto dimensionale e diversificare allo stesso tempo le attività. Ma c’è un costo da pagare, ed è la rinuncia alla gallina delle uova d’oro visto che proprio Borsa italiana contribuisce ogni anno in maniera rilevante alla formazione dell’utile del gruppo londinese che l’ha acquisita nel 2007 senza peraltro suscitare eccessivo clamore mediatico. Ma erano tempi in cui sembrava naturale che a determinare la scelta della proprietà di chi gestisce le negoziazioni finanziarie di un paese fosse una logica puramente di mercato in grado di garantire neutralità ed efficienza a un universo sempre più variegato di investitori. Intanto, le cose sono cambiate. E secondo un economista di chiara estrazione liberista come Carlo Lottieri, come ha osservato qualche giorno fa sul Giornale, è rischioso che la gestione di un’istituzione cruciale per l’economia italiana passi dal mondo anglosassone, tradizionalmente più aperto al mercato, a quello continentale, nel quale la politica pesa in modo più significativo. “Quando ho espresso questa preoccupazione non sapevo dell’ipotesi di una proposta di matrice pubblica italiana – dice al Foglio Lottieri – Oggi sono ancora più perplesso perché viviamo un’epoca in cui la crisi Covid e la necessità di aiuti di stato hanno fatto diventare più forte l’influenza della politica e la presenza dello stato nell’economia. Se chi dovrebbe limitarsi a far rispettare le regole di un sistema diventa anche proprietario del sistema stesso, si rischia di creare un rilevante conflitto di interesse”.
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