Che fosse simpatico non si può dire, e compiacere non era il suo mestiere, ma certo Cesare Romiti (1923-2020) era un tipo tosto, squadrato, una marionetta vispa intessuta di fili d’acciaio, sapeva come fare e come picchiare, sprimacciava e rassettava l’azienda il comando la politica con abilità manipolatoria indiscussa, seppe funzionare come strumento della Provvidenza e della famiglia Agnelli anche nell’arena della lotta di classe e della sua ultima manifestazione novecentesca, la lotta alla Fiat in epoca di terrorismo dispiegato. Aveva anche altre caratteristiche importanti. Era un romano in terra straniera (Torino, poi Milano nella regione di cui era re il siciliano Cuccia), e le sue idiosincrasie lo salvarono, lui molto mondano e anche chiassoso nella sua umanità e personalità socievole, da compromessi di stile che sarebbero risultati pacchiani, detestava quasi tutti e liquidava gli intermediari con cinismo spietato, appunto, da legionario disperso in una guerra senza prigionieri. Aveva un’attitudine benevola verso chi gli serviva e lo serviva, in particolare i giornalisti, ma era solo il condimento della trippa finanziaria applicata all’industria manifatturiera e all’editoria. Seppe ascendere imperterrito contro l’avventuroso De Benedetti e molti altri pretendenti che divoravano capretti e maiali portati alla corte di Telemaco dal porcaro Eumeo, e seppe anche discendere, garantitosi una serena lunga e attiva vecchiaia, quando le cose si misero male per lui e la famiglia.
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