I piani per il Sud non hanno funzionato, perché stavolta dovrebbe essere diverso?
Se la diagnosi è il ritardo economico la terapia non è l’iniezione di denari, sia che essi gravino sul debito pubblico nazionale o su quello dei partner europei
Siamo in piena ebbrezza per gli oltre 200 miliardi di matrice europea che dovrebbero dare la grande scossa all’economia italiana, le cui difficoltà di crescita – giova sempre ricordarlo – hanno ormai la rispettabilissima età di circa trent’anni. Uno degli assi portanti della grande trasformazione prossima ventura non potrà non riguardare lo sviluppo economico del Mezzogiorno. E’ la sempreverde questione meridionale che, irrisolta, ha generato specularmente quella settentrionale. La strategia del governo per lo sviluppo del sud nei prossimi anni poggia su due pilastri. Il primo, orientato al breve-medio termine, è la riduzione per via fiscale del costo del lavoro nelle sole regioni meridionali. Il secondo, pensato su di un orizzonte di medio-lungo periodo, è l’aumento delle produttività attraverso l’iniezione di spesa pubblica. Il primo pilastro convince poco, come già messo in luce da diversi commentatori, tra cui Sandro Brusco e Nicola Rossi su queste colonne. Sebbene l’obiettivo di allineare il costo del lavoro alla produttività (e al costo della vita) sia senz’altro meritorio, lo strumento prescelto introduce l’ennesima distorsione in un sistema impositivo già molto contorto ed è costoso per il bilancio pubblico. Molto meglio spingere sulla contrattazione decentrata a livello territoriale/aziendale. Inoltre, l’esperienza storica insegna che la fiscalità di vantaggio, già sperimentata fino al 1995, non sembra aver prodotto risultati apprezzabili.
Si è invece discusso molto meno del secondo pilastro. Si tratta di capire se sostenere lo sviluppo dell’economia meridionale attraverso l’utilizzo massiccio della leva fiscale sia un’ipotesi ragionevole o meno. Poiché l’idea è tutt’altro che nuova (la Cassa per il Mezzogiorno, braccio operativo del cosiddetto intervento straordinario, fu attiva tra gli anni ’50 e gli ’80 del secolo scorso, quando lasciò il passo ai fondi strutturali europei), esiste oggi un ampio corpus di studi, condotti secondo le migliori prassi internazionali, sugli effetti delle politiche per il sud. Sarebbe un vero peccato se i responsabili della politica economica non ne tenessero conto, lasciando inalterata la deprecabile divaricazione tra decisione politica e conoscenza scientifica. Per esempio, l’agile volume “Morire di Aiuti” (Ibl libri), scritto da Antonio Accetturo e Guido de Blasio della Banca d’Italia, sintetizza queste ricerche in modo molto accessibile ed efficace.
Riavvolgiamo allora il nastro e vediamo che cosa è successo nelle puntate precedenti. Tutte le evidenze puntano concordi in un’unica direzione: i sussidi al Mezzogiorno erogati negli ultimi trent’anni non hanno prodotto alcun impatto positivo in termini di crescita. In alcuni casi hanno addirittura avuto effetti collaterali negativi quali alimentazione dei circuiti economici della criminalità organizzata, corruzione, deterioramento del cosiddetto capitale sociale delle comunità locali (mix di fiducia, civismo etc.).
L’assenza di effetti significativi ha accomunato programmi di spesa tra loro molto diversi, suggerendo quindi che quello che conta maggiormente è il contesto, più che il funzionamento concreto del singolo programma di sussidi. Per esempio, i finanziamenti legati alla legge 488/92 (circa 21 miliardi tra il 1996 e il 2014) hanno indotto le imprese ad anticipare gli investimenti, calati poi nei periodi successivi. I Contratti di programma, attivi dal 1986 e frutto di accordi negoziali su base bilaterale tra governo e singola impresa beneficiaria del sussidio (come l’allora Fiat a Melfi), hanno sì accresciuto l’attività in alcune aree molto circoscritte ma questo è avvenuto a scapito di altre aree limitrofe con un effetto complessivamente nullo. Anche i Patti territoriali, caratterizzati da una governance “dal basso” che coinvolgeva le comunità locali come soggetti attivi dello sviluppo, non hanno avuto alcun impatto sullo sviluppo locale. I fondi strutturali europei hanno innalzato il tasso di crescita del prodotto pro capite solo nelle regioni europee con un contesto istituzionale favorevole in termini di livello di istruzione, capitale sociale, etc. (essenzialmente in Germania). In Italia l’effetto è stato trascurabile e, peraltro, non duraturo, come insegna il caso dell’Abruzzo (uscito dal programma europeo di coesione territoriale alla fine degli anni ’90): sospesa la medicina, è tornata la malattia.
E’ un quadro poco confortante ma, ahinoi, molto chiaro: se la diagnosi è il ritardo economico la terapia non è l’iniezione di denari, sia che essi gravino sul debito pubblico nazionale o su quello dei partner europei. Si inverte quindi l’onere della prova: non si può più semplicemente ipotizzare che questa volta le cose andranno diversamente, cullandosi del dolce fruscio degli euro che, nella metafora dell’helicopter money, sembrano piovere magicamente da un elicottero. Illudersi della validità dell’equazione spesa = sviluppo poteva essere comprensibile all’indomani della seconda guerra mondiale o, al più, quarant’anni dopo con l’avvio della politica di coesione europea. Oggi non è scusabile, date le occasioni perse in passato e l’attuale, enorme, debito pubblico. Occorrerebbe quindi chiarire in modo credibile come e perché questa volta sarà diverso. Dipenderà dalle condizionalità europee? E’ una condizione senz’altro necessaria ma verosimilmente non sufficiente.
Post scriptum: il Piano Sud 2030 del ministro Provenzano, presentato a febbraio 2020, prevedeva esplicitamente il cosiddetto strumento di valutazione whatworks. Il termine, se correttamente inteso in linea con le prassi internazionali, significa valutazione delle misure di politica economica con strumenti statistico-econometrici in grado di isolare credibilmente l’effetto della politica e con un meccanismo di governance del processo che preveda replicabilità, trasparenza, peer review e terziarietà della valutazione. Quale occasione migliore per attuare questo intento? Cosa è stato previsto al riguardo? Chi, come, con quali dati e strumenti, etc. valuterà il primo pilastro della decontribuzione e le concrete misure che saranno adottate nell’ambito del secondo?
Guglielmo Barone è docente all'Università di Padova