A scatolone o a mosaico? Teoria e tecnica del Recovery plan
L’Italia è abituata a leggi “scatolone” in cui infilare tante norme diverse. Ma stavolta per sfruttare i 209 miliardi europei tutte le tessere devono comporre un disegno coerente
In un mosaico le tessere s’incastrano alla perfezione per concorrere a un’opera unitaria. Un contenitore, invece, può ospitare tante cose, anche molto diverse tra loro, senza nessuna particolare coerenza. Per fare un mosaico ci vuole molto di più di un’idea generica: servono un disegno, una trama su cui lavorare, cura nell’incastro delle tessere. Un contenitore, un grande scatolone, lo si può riempire con ciò che si ha sottomano, anche con materiali riciclati. Un mosaico dura nel tempo ed è realizzato per le future generazioni: qualche tessera si può logorare e può essere restaurata, ma l’opera ha lunghissima vita; uno scatolone ha vita effimera, si consuma con l’uso e tutt’al più può essere avviato al riciclo.
Nel corso degli anni, il legislatore italiano si è specializzato nel riempimento di contenitori, vieppiù grandi e caotici. Sempre più di rado, invece, si dedica alla complessa arte del mosaico. La costruzione e il riempimento del contenitore seguono un rituale oramai consolidato. Si sceglie un tema, spesso soltanto un titolo, uno slogan (per esempio: “cura-Italia” e prima ancora “sblocca-cantieri”, oppure “libera-Italia”) e si invitano tutti i ministeri a dare il loro contributo di norme per riempire il contenitore. I ministeri aprono i loro cassetti e li rivoltano alla ricerca di qualcosa di acconcio; se proprio non lo trovano o hanno qualche necessità, fabbricano sul momento qualcosa di nuovo; in molti casi, provano a riciclare norme già proposte senza successo in altre epoche, sperando che sia la volta buona.
Una volta completata la raccolta, si assembla alla meno peggio il tutto, si fanno circolare indiscrezioni per fiutare l’aria ed eventualmente correggere il tiro e infine, a distanza anche di settimane dal lancio, si convoca il Consiglio dei ministri, preferibilmente – consuetudine, questa, stabilitasi negli ultimi tempi – in orari serali o notturni. Si approva un testo, magari “salvo intese” (formuletta che segnala il fatto che molte norme vanno ancora scritte o dovranno essere riscritte) e si convoca una conferenza stampa per annunciare svolte epocali, risultati mirabolanti, l’anno che verrà.
E’ nato così, per fare un esempio recente, l’ultimo decreto “Semplificazioni”. La titolazione è accattivante, ma il motto “Andate e semplificate” non sempre ha trovato rispondenza nelle norme scaricate nel contenitore. Nello scatolone sono finiti articoli che, anziché semplificare, perpetuano le scorciatoie derogatorie dell’affidamento a commissari straordinari (per esempio, articoli 8, 9 e 11), norme inutili (per esempio, l’art. 4 sostituisce in un’altra disposizione l’espressione “ha luogo” con quella assolutamente equivalente, sotto il profilo giuridico, “deve avere luogo”), norme estranee al pur generalissimo obiettivo (per esempio, l’articolo 20, che riguarda il trattamento economico dei vigili del fuoco). Quasi tutte le norme, soprattutto in una materia cruciale come quella degli appalti, dettano regimi derogatori e transitori, con buona pace della certezza del diritto.
I contenitori prendono solitamente la forma del decreto-legge, straordinario deus ex machina legislativo che unisce all’illusorietà di decisioni rapide ed efficaci la semplicità di approvazione (bastano una delibera del Consiglio dei ministri e la firma del presidente della Repubblica, difficilmente negata, tutt’al più contrattata) e il fatto di mettere il Parlamento davanti al fatto compiuto (il decreto è immediatamente in vigore, con la pubblicazione in “Gazzetta ufficiale”, e va convertito in legge entro 60 giorni).
La tecnica dell’inscatolamento su grande scala diventa pressoché indispensabile quando manca una strategia, per trasferimenti di piccolo importo e di corto respiro, per lo più di parte corrente, per bonus et similia. Molti contenitori sono così enormi e multiformi da essere pressoché imperscrutabili e ingestibili anche per l’organo che li ha emanati, il governo. Peraltro, proprio per la loro variegata composizione, finiscono sempre per lasciare scontento più di qualcuno, anche nella stessa maggioranza. Allora, per convertirli, si ricorre all’abusato rituale della questione di fiducia: il governo mette in gioco la propria esistenza, sapendo che è un gioco in cui vince sempre.
Scatoloni si susseguono a scatoloni, andando ad alimentare il pozzo senza fondo della legislazione italiana, ove si accumulano norme su norme riguardanti gli stessi argomenti, con continue e spesso improvvisate (ri)messe a punto. Solo in questi primi sette mesi e mezzo del 2020, buona parte dei quali segnati dalla pandemia, governo e Parlamento hanno sfornato almeno sette-otto contenitori normativi, infrangendo ogni record di lunghezza, componendo testi in cui è impossibile districarsi, moltiplicando rivoli di spesa per trasferimenti di cortissimo respiro e di sicuro impatto, negativo, sulla tenuta dei conti pubblici di oggi e di domani.
L’ultimo scatolone convertito in legge, il cosiddetto “decreto rilancio” (decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34), nato obeso come non mai (266 articoli, 1049 commi, 7 allegati), si è gonfiato in fase di conversione fino a raggiungere i 342 articoli, contenenti mille misure per lo più di impatto economicamente e/o temporalmente limitatissimo e in genere condizionate all’emanazione di un decreto attuativo. Qualche esempio: l’articolo 30 stanzia 600 milioni di euro destinati a ridurre le bollette dell’energia elettrica per le utenze non domestiche per i mesi di maggio, giugno e luglio; l’articolo 38-bis stanzia 5 milioni di euro per contributi a fondo perduto volti a “sostenere l’industria del tessile, della moda e degli accessori a livello nazionale, con particolare riguardo alle start-up che investono nel design e nella creazione, nonché allo scopo di promuovere i giovani talenti del settore del tessile, della moda e degli accessori che valorizzano prodotti made in Italy di alto contenuto artistico e creativo”.
L’articolo 40 riconosce un contributo nel limite complessivo di 4 milioni di euro alle microimprese e alle piccole e medie imprese che gestiscono il servizio di distribuzione autostradale di carburanti. Si potrebbe continuare a lungo, tra spese anche consistenti ma di brevissimo periodo (come l’articolo 30) e piccolissimi rivoli di spesa, che potranno dare al più un sollievo minimale, anche perché rivolti a una vasta platea (come l’articolo 38-bis).
Alla confusa tecnica delle dispensazioni da contenitore si contrappone la sublime arte del mosaico, oggi tanto più necessaria per imprimere una svolta all’ordinamento e utilizzare in maniera organica e strategica le risorse generosamente messe a disposizione dall’Unione europea, guardando al domani. Quando si realizza un mosaico già si ha chiaro all’inizio, nella fase di progettazione, il risultato che si vuole ottenere: il disegno e il taglio delle tessere richiede tempo, ma in genere ripaga. Mosaici legislativi se ne vedono sempre di meno, perché il legislatore ha perso ogni minima visione di futuro e si arrabatta inseguendo, con affanno, frammenti di presente da inscatolare.
Eppure, oggi, è di un grande mosaico che avremmo bisogno per utilizzare dignitosamente le risorse del Recovery fund. Le scelte allocative dovrebbero essere accompagnate da alcuni, pochi, interventi strutturali di lungo periodo. Questi interventi dovrebbero essere, là dove possibile, condivisi per evitare che al prossimo cambio di maggioranza vengano aperti in breccia, come è accaduto solitamente in Italia negli ultimi 30 anni. Del resto, in questo stesso arco di tempo, la fine dei partiti tradizionali e la loro sostituzione con partiti a dir poco liquidi e sempre più personalizzati, indifferenti a capacità e cursus honorum dei loro rappresentanti, hanno fortemente depotenziato il Parlamento, oggetto di una violentissima campagna anticasta: anche in queste prime settimane di agosto, i mass media e social sono stati quasi monopolizzati dalla vicenda dei bonus ottenuti da tre deputati, per un totale di 1.800 euro, rispetto ai 209 miliardi di euro messi a disposizione dall’Unione europea, che nessuno è in grado di dire come utilizzeremo e con quali procedure decisionali.
Un Parlamento così depotenziato non sa da dove cominciare per realizzare da solo mosaici che durino nel tempo: ha bisogno di una sponda costante con il governo per districarsi in una realtà sempre più complessa, ove si moltiplicano e si sovrappongono i soggetti che suggeriscono il disegno o portano singole tessere, da bilanciare e armonizzare tra di loro per un buon risultato. Fuor di metafora: una buona legge può nascere, se si è bravi e fortunati, come esito di una serie di ingredienti sapientemente utilizzati: un disegno chiaro della maggioranza, un confronto tra maggioranza e minoranze, tra governo e Parlamento, tra stato da una parte e Unione europea, sistema regionale e delle autonomie, parti sociali dall’altro. E’ un compito divenuto sempre più improbo, che va compiuto a tappe, con metodo, salvaguardando le fasi della progettazione e dell’istruttoria, che rimangono compresse, sincopate e secondarie negli scatoloni dei decreti-legge.
Un metodo di lavoro talvolta rivelatosi efficace – lo si è visto nel passato, fin dalla legge 421 del 1992 – consiste in una delega al governo, che non espropri il Parlamento (come spesso si dice) ma lo collochi come coprotagonista accanto all’esecutivo. Tornando alla saga del Recovery fund, si potrebbe procedere contestualmente all’approvazione della legge di bilancio in Parlamento e alla definizione di un disegno di legge delega, collegato alla manovra di finanza pubblica per il 2021, da presentare alle Camere entro il mese di gennaio prossimo con un regime procedurale, per così dire, di favore. Durante la discussione parlamentare del disegno di legge, con l’ascolto di regioni, autonomie locali e parti sociali, il governo avrebbe tutto il tempo di lavorare agli schemi dei decreti legislativi da definire – nuovamente – con il concorso del sistema regionale e delle autonomie, delle parti sociali e delle competenti commissioni permanenti dei due rami.
Le materie su cui intervenire sono diverse e, ormai mestamente note nel quadro complessivo di finanza pubblica: istruzione, spesa pensionistica, sanità, mercato del lavoro e produttività, pubbliche amministrazioni, spesa per investimenti e contratti pubblici, tutte attraversate dalle direttrici della digitalizzazione e della sostenibilità ambientale, ampiamente richiamate in sede europea come riferimenti per gli interventi di riforma.
Il dibattito in Italia non sembra tenerne troppo conto, ma il delicato, e per molti versi precario, equilibrio raggiunto in Europa con l’accordo sul Recovery fund potrà superare la prova delle urne dei paesi frugali solo se l’Italia, vero malato d’Europa, darà prova di saper costruire un mosaico credibile per la crescita. Nonostante il miraggio di nuova liquidità da potersi spendere al casinò dei trasferimenti e dei sussidi, questa volta dovremmo rinunciare ai nostri amati scatoloni, riempiti di stratificazioni di regole, spese minute e dispensazioni varie, in favore di investimenti e di interventi strutturali di lungo periodo, che giustifichino – anche agli occhi delle nuove generazioni – le profondità abissali raggiunte dal nostro debito. Il tempo è sempre meno, ma non ci rassegniamo a coniugare il condizionale al passato, coltivando un’ultima speranza: che le istituzioni sappiano finalmente decidere per il futuro, con il giusto metodo.