Altro che bonus e sussidi, ai giovani servono lavoro e formazione
Boom di disoccupati e una scuola sganciata dal mondo reale: serve il piano Next Generation Eu per avvicinare l'Italia agli altri Paesi europei
Non c’è traccia della consunta retorica sul conflitto generazionale nel richiamo di Mario Draghi alla necessità di concentrare gli investimenti pubblici sui giovani. Nel ragionamento dell’ex presidente della Bce c’è, semplicemente, una lucida analisi: data la composizione demografica delle democrazie evolute, la sola via per sostenere i costi crescenti di un welfare sempre più sbilanciato verso gli anziani ed evitare cortocircuiti generazionali è allungare la vita lavorativa e aumentare il valore prodotto dal lavoro. Per ottenere questo cambiamento occorrono politiche e investimenti di lungo periodo. La direzione di marcia non è difficile, basta prendere quella esattamente opposta alla attuale. Anziché anticipare l’età del pensionamento, occorre anticipare l’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro. Anziché congelare posizioni di lavoro nelle imprese e nei settori che non hanno futuro, occorre favorire la mobilità nel mercato attraverso la rigenerazione delle professionalità in funzione del fabbisogno di nuove competenze.
Si fa un gran parlare della trasformazione del lavoro nella fase post Covid, si dice che nulla sarà come prima. Eppure siamo pronti a spendere fino all’ultimo euro in cassa integrazione, bonus e sussidi che hanno il solo e dichiarato scopo di mantenere lo status quo. Dal debito accumulato per sostenere queste misure non trarremo alcuna spinta verso il cambiamento. Ogni mese attendiamo il rapporto dell’Istat per scoprire, invariabilmente, che la disoccupazione giovanile è più del triplo di quella media. Non è frutto del caso se nel nostro paese i giovani occupano i lavori più precari, meno qualificati e, quindi, più immediatamente sacrificabili in presenza di shock economici. E’ la logica conseguenza del disinteresse verso l’intero sistema educativo e formativo e le sue connessioni con il mondo reale. Per decenni ci siamo crogiolati nella convinzione che la scuola italiana fosse una delle migliori del modo. Ammesso e non concesso che ciò sia mai stato vero, non ci vuole molto a capire che un sistema educativo che rimane immobile, mentre la società attraversa una straordinaria fase di trasformazione culturale e tecnologica, non può che deteriorarsi. Scuola, formazione professionale e orientamento verso professioni coerenti con le competenze acquisite sono tappe di un percorso che, nel nostro paese, non è mai stato preso seriamente in considerazione. Il principio costituzionale di libertà di insegnamento è stato distorto dalla sua originaria finalità di presidio democratico per farne strumento di proliferazione di percorsi formativi senza concrete prospettive occupazionali. Ancora oggi prevale lo spirito gentiliano che vuole si preservi la purezza della scuola da ogni contaminazione con il lavoro. Basti ricordare le feroci critiche riservate alla, pur limitata e tardiva, esperienza italiana della alternanza scuola-lavoro o l’avversione culturale al contratto di apprendistato per l’acquisizione di una qualifica o diploma professionale. Al netto della fase eccezionale dovuta al Covid, mentre in Italia i diplomati negli istituti tecnici superiori sono circa 8 mila all’anno e un giovane ogni tre è disoccupato, in Germania i diplomati di pari livello sono più di 800 mila e i giovani disoccupati sono meno del 6 per cento.
C’è chi sostiene che in questa fase drammaticamente recessiva è bene spendere quanto più possibile in sussidi e sospendere le politiche attive del lavoro, in attesa che riparta la domanda. Penso che sia vero l’esatto contrario. Per un paese come il nostro, dove si sono distribuiti fiumi di denaro in ammortizzatori sociali lasciando poche briciole ai servizi dedicati al rafforzamento della occupabilità delle persone, le risorse straordinarie messe a disposizione dal piano Next Generation Eu rappresentano un’occasione irripetibile per costruire un sistema paragonabile a quelli degli altri paesi europei. Non approfittarne per dirottare i fondi europei su misure assistenzialistiche passive sarebbe un errore che i nostri giovani non potranno mai perdonarci.