Più inflazione, più salari, più lavoro, meno austerità. La svolta è grande, come quella del 1979, anche se va in senso inverso. Allora un presidente della Federal Reserve democratico, il gigantesco Paul Volcker, strinse la corda per stroncare la sfrenata corsa dei prezzi. La scorsa settimana un presidente repubblicano, Jerome Powell, aprendo l’annuale incontro dei banchieri centrali a Jackson Hole nel Wyoming, ha cambiato spalla al fucile monetario: prima di tutto bisogna far crescere i prezzi e l’occupazione. Il tetto del 2 per cento l’anno, fissato nel 2012, è troppo basso, quanto meno occorre che venga considerato una media lasciando che l’inflazione salga e scenda. I timori sull’eccesso di moneta sono esagerati; al contrario, la Banca centrale continuerà a stampare dollari e a mantenere il costo del denaro di poco sopra lo zero (la Bce è andata anche sotto), una scelta non solo di breve periodo per far fronte all’attuale recessione, ma a lungo termine per evitare una penosa stagnazione. Aveva ragione Olivier Blanchard, peccato che lo abbiano riconosciuto con dieci anni di ritardo e con il fiato di Donald Trump sul collo. L’economista francese, che non ha più abbandonato l’America, ha studiato con Stanley Fischer al Massachusetts Institute of Technology come Mario Draghi, ha insegnato a Harvard e pubblicato il manuale di Macroeconomia sul quale si sono rotti la testa migliaia di studenti. Nel 2010, quando era al Fondo monetario internazionale, scrisse che bisognava allentare “lacci e lacciuoli” lasciando spazio all’inflazione. Il suo studio aveva un titolo ambizioso (“Ripensare la politica macroeconomica”) e indicava nel 4 per cento il nuovo obiettivo minimo. Allora si aprì un dibattito accademico, le Banche centrali misero al lavoro i loro uffici studi, ma non cambiarono gli obiettivi prestabiliti.
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