Tutti i problemi della rete unica con l'Antitrust (e non solo)

Sergio Boccadutri e Carlo Stagnaro

Oltre alle perplessità della Commissione Ue, c’è un tema di fondo: sicuri che non sia meglio la concorrenza infrastrutturale?

Nei videogiochi degli anni Ottanta, sconfitto un mostro, il giocatore doveva affrontarne uno peggiore. Ma non siamo in un videogame, quanto piuttosto in una più accidentata partita a Risiko sulle infrastrutture di telecomunicazioni. I fautori della rete unica, pubblica e scorporata, dopo la mossa di Tim, sono “scontenti a metà” e devono cercare un mostro più grosso: l’Antitrust europeo. Secondo indiscrezioni diffuse ieri da Bloomberg, la Commissione europea avrebbe delle perplessità sull’accordo di massima tra Tim e Cassa depositi e prestiti. Ovviamente, ora non c’è alcuna conferma: il progetto è nelle sue fasi preliminari e deve ancora essere formalizzato. Inoltre, non è detto che le obiezioni di Bruxelles siano relative solo all’integrazione verticale (come sperano gli “scontenti a metà”): potrebbero puntare anche al cuore dell’operazione, cioè la creazione – indotta dal governo – di un monopolio delle reti dove invece può esserci (e c’è) concorrenza.

 

Il deal prevede il conferimento della rete in un nuovo veicolo societario, FiberCop, verso il quale dovrebbero poi confluire gli asset degli altri operatori (Fastweb, Tiscali e Open Fiber). Si tratta di un’operazione delicata non solo perché comporta una concentrazione monopolistica, ma anche perché Tim potrebbe mantenere una quota significativa o addirittura di controllo. Quindi, vanno valutati gli aspetti relativi sia all’integrazione orizzontale (ci sono benefici sufficienti a compensare la fine della concorrenza infrastrutturale?), sia a quella verticale (esiste il rischio che Tim possa approfittarne per guadagnare terreno nel mercato dei servizi?). Ma c’è un paradosso.

 

Il paradosso

L’eventuale monopolio non è un fatto di natura: anzi, in natura la situazione è precisamente opposta. Il nostro paese, come tutti gli altri stati membri dell’Unione europea ha affidato alla concorrenza infrastrutturale lo sviluppo delle reti. Al di là di ogni narrazione sulle sorti progressive della rete unica, proprio la nascita di Open Fiber e il Piano per la Banda ultra larga sono stati la manifestazione più tangibile della convinzione generale che la competizione infrastrutturale non fosse abbastanza serrata, a tal punto da mettere in campo i soldi dello stato (i finanziamenti per cablare le aree bianche) e una delle sue più importanti aziende partecipate (l’Enel) per dar vita a un agguerrito competitor (Open Fiber). Se quindi oggi discutiamo dei rischi del monopolio non è perché si siano scatenati gli spiriti animali del capitalismo: al contrario, il nuovo monopolio, se si farà, sarà precisamente la conseguenza di un mutato orientamento politico.

 

Alla luce di questo, pare insostenibile dare anche per scontato che l’esproprio della rete sia una via percorribile, come se una maggioranza della proprietà della rete in capo a Tim fosse un fatto insostenibile (forse solo ideologicamente), persino in presenza di una rete aperta a tutti, di una governance indipendente e neutrale, e governata da meccanismi disegnati espressamente per “sterilizzare” qualunque effetto di integrazione verticale, assieme a un presidio regolatorio volto a mantenere parità d’accesso e non discriminazione. Insomma, a oggi, questo dibattito appare assai strano e si ha la sensazione che le preoccupazioni anti-monopolistiche siano poco più di una foglia di fico di una cattiva coscienza della politica. E, magari, serve a dare abbrivio a un progetto che non ha nulla a che fare con la concorrenza, e che invece rappresenta una mera partita di potere.

 

Peraltro, la giustificazione del progetto sta nel tentativo di costruire, attraverso l’unificazione delle reti e la proprietà pubblica, un operatore terzo, attivo solo sul segmento wholesale (cioè nella gestione della rete) ma assente da quello retail (cioè dai servizi). Ci sono tre ragioni per cui ciò è di difficile realizzazione: 1) è possibile che la rappresentazione presso le autorità antitrust di un'efficiente concorrenza infrastrutturale nello status quo induca le stesse a vietare tout court il monopolio wholesale; 2) in caso alternativo, è assai probabile che ove le sia impedito di consolidare il debito, grazie alla maggioranza del capitale nella newco, Tim rinunci del tutto all’operazione, tornando allo scenario di concorrenza infrastrutturale; 3) non è affatto detto, come dimostrano gli stessi ritardi nelle aree bianche, che la proprietà pubblica, di per sé, sia sufficiente alla realizzazione accelerata di investimenti in banda ultra-larga nel paese.

 

I tre problemi aperti

Sono dunque tre le questioni antitrust che vanno affrontate: 1) la presunta inefficienza dello status quo versus il monopolio wholesale; 2) la terzietà della rete aggregata (e non necessariamente unica); 3) gli investimenti futuri. Sul primo punto, l’accusa è che la competizione causi una duplicazione di investimenti, con uno spreco di risorse. Ciò è incoerente con l’accusa precedente – che spinse appunto alla creazione di Open Fiber – secondo cui Tim avrebbe tenuto una condotta di sotto-investimento strategico. Ma anche ammettendo che lo status quo abbia prodotto sovra-investimento in alcune aree e sotto-investimento in altre, la soluzione non sta necessariamente nella separazione proprietaria (che farebbe franare il modello di business di Tim). Ci sono precedenti, per esempio la fusione Telepiù-Stream nel 2003, in cui la Commissione autorizzò il consolidamento a patto che l’infrastruttura essenziale fosse posta in condizione di separazione societaria e che la regolazione garantisse l’accesso a pari condizioni ai concorrenti. Nulla vieta che lo stesso possa ripetersi oggi.

 

E questo risponde alla seconda preoccupazione. A differenza del caso della pay-tv, Tim già oggi è sotto presidio regolatorio, attraverso l’Organo di vigilanza sulla parità di accesso alla rete che garantisce parità di trattamento, nell’ipotesi che la rete di Tim sia non duplicabile e quindi rappresenti essa stessa un monopolio. Resta così l’ultimo tema, quello più importante: gli investimenti futuri. Gli incentivi qui non c’entrano nulla con la natura pubblica o privata della proprietà della newco, quanto con la capacità delle autorità antitrust e del regolatore di imporre e far rispettare un calendario chiaro e verificabile di interventi. Il richiamo del ministro dello Sviluppo economico, Stefano Patuanelli, al precedente di Terna appare fuori luogo. Infatti, le reti di trasmissione nazionale dell’energia elettrica (l’asset affidato in concessione a Terna) sono separate proprietariamente in mezza Europa, con ottimi risultati, proprio perché si tratta di un monopolio naturale.

 

Le reti telefoniche, invece, non lo sono quasi da nessuna parte (tranne Australia e Nuova Zelanda) proprio per la ragione opposta: perché nelle tlc, a differenza che nell’energia, la concorrenza infrastrutturale è possibile e, per chi scrive, persino auspicabile proprio perché la domanda di rete può rispondere a bisogni molto differenti, che possono essere soddisfatti quindi anche più efficientemente con una piena concorrenza infrastrutturale. D’altra parte, se il progetto di rete unica non venisse autorizzato o non venisse accettata da Tim la condizione di rinunciare al consolidamento del proprio debito, si tornerebbe alla concorrenza. A quel punto, il regolatore dovrebbe prendere atto che esiste in Italia una credibile minaccia concorrenziale infrastrutturale a Tim e che dunque, almeno in alcune aree del paese, la stessa non sarebbe più titolare dell’unica risorsa essenziale, imponendo al regolatore una spinta alla deregulation.

 

Insomma, se si vieta la rete unica in ragione della concorrenza infrastrutturale non si potrà più continuare a regolamentare Tim “come se” disponesse di una rete unica. Ed è qui che si manifesta il paradosso: chi prende per buono l’obiettivo della rete unica (pubblica e scorporata), non può affermare anche che la concorrenza infrastrutturale è inefficiente. Al contrario se si ammette che esiste un'inefficienza della concorrenza infastrutturale bisogna ammettere che una rete unica pubblica e scorporata non risponde a un interesse pubblico (massimizzare gli investimenti), ma solo alla ragion politica. Una ragion politica per fortuna non ancora granitica nel governo.

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