Sta calando sul mondo intero una nuova cortina di ferro (o di bambù se vogliamo, robusto come il ferro e più flessibile). La innalzano gli eserciti degli affari spezzando e duplicando la catena del valore. Il concetto sembra astruso, ma solo in apparenza. Nei trent’anni della globalizzazione (la terza in verità dopo quella a cavallo tra ‘800 e ‘900, e i “trenta gloriosi” come li chiamano i francesi, dal 1946 fino alla crisi petrolifera degli anni ’70) la produzione di merci a mezzo di merci è uscita dai confini nazionali ed è diventata davvero mondiale. Paradossalmente è successo anche grazie a un paese che si definisce comunista pur avendo applicato spesso in modo spregiudicato le leggi del capitalismo: la Cina. Ebbene, gli Stati Uniti vogliono non solo rompere gli anelli che portano a Pechino, ma creare una catena parallela che arrivi a Washington e possa essere addirittura manovrata dalla Casa Bianca. Questa strategia si sta definendo ormai con una certa chiarezza, è più sofisticata della “guerra dei dazi” scatenata da Trump ed è destinata a sopravvivere a The Donald se il 3 novembre verrà sconfitto. La pandemia ha esasperato il conflitto anche perché il Covid-19 ha silurato gli Stati Uniti e mandato a picco i paesi europei, mentre la Cina galleggia ancora. La terribile ironia della storia è che a pagare il prezzo più alto non sarà tanto l’Impero di Mezzo, dove tutto è cominciato, ma l’Europa. E i maggiori guadagni non andranno all’America, bensì all’Asia, alle subpotenze che nuotano attorno alla Cina come i pesci pilota attorno alle balene. Taiwan, Corea del sud, Vietnam, Cambogia, Indonesia, Thailandia, economie già ricche o in rapida ascesa, che hanno un rapporto ambivalente o conflittuale con il regime comunista, paesi sempre più integrati e protagonisti del modello asiatico che Pechino intende mantenere e rafforzare con una diversa formula visibile già nella pandemia: più mercato interno, più privatizzazioni, più tecnologia, più sicurezza militare.
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