Le piccole e medie imprese, le attività di famiglia, quelle in cui il patron per dirla alla francese ha in mano la proprietà e la gestione, hanno tenuto in piedi l’Italia prima della pandemia, ora si sono rimboccate le maniche, anche se soffrono e chiedono aiuto. Sono il pilastro del secondo paese manifatturiero d’Europa, ma ormai da decenni rappresentano anche il cuore della cosiddetta “questione settentrionale” e il campo di battaglia della politica, i loro interessi determinano gli equilibri dei governi per lo meno dalla fine della Prima Repubblica. Quante sopravviveranno alla più grave crisi degli ultimi ottant’anni? E quante perderanno la spinta propulsiva che le ha tenute in piedi? Secondo i dati raccolti dalla Banca d’Italia e da Prometeia, il 70 per cento delle aziende italiane con più di 50 dipendenti (quindi non solo le microimprese) è di tipo familiare, il 53 per cento degli imprenditori italiani ha più di 60 anni e solo il 2 per cento ha pianificato la successione dei beni familiari. Al centro del sistema industriale c’è un problema generazionale che si aggiunge al nanismo, al gap digitale, a quel mix di prodotti e a quel modo di produrli che non reggono alle sfide del Duemila. Non tiriamo in ballo la solita globalizzazione o la solita Cina, gettiamo piuttosto uno sguardo dentro noi stessi.
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