Dopo aver rotto con il marxismo lo scrittore peruviano si è opposto a tutte le autocrazie, indagando la natura violenta del potere e teorizzando un mondo in cui libertà economica e politica sono possibili grazie alla cultura. Una raccolta dei suoi saggi più politici
"Un uomo forte come Richelieu / ci porterebbe tutti quanti in porto”, recitava la filastrocca cantata nelle bettole parigine alla vigilia del colpo di stato del brumaio (dicembre) 1799. A quel primo modello di stampo napoleonico si sarebbero poi ispirati molti dittatori dei vari totalitarismi fioriti nel Novecento, in Europa come nel continente latinoamericano. Dopo la sua rottura col castrismo all’inizio degli anni Settanta, Mario Vargas Llosa non ha cessato di far sentire la sua voce contro le autocrazie di ogni tipo, al contrario di quei maître à penser che hanno invece scelto – per codardia o convenienza – il silenzio, ovvero la massima espressione di subalternità verso chi detiene il potere. Per questo, in tempi in cui buona parte dell’intellighenzia di sinistra è sedotta dalle sirene del populismo, tace o si rifugia in polemiche astruse contro un mitologico “neoliberismo”, leggere l’autore de Il richiamo della tribù, in cui racconta come ha voltato le spalle alla sua gioventù tinta di rosso, è come aprire una finestra in una stanza piena di fumo. Da ultimo, lo testimonia un volume fresco di stampa, in cui sono raccolti i suoi saggi più politici (Sciabole e Utopie. Visioni dell’America latina, Introduzione di Alberto Mingardi, Liberilibri, 301 pp., 20 euro).
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