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Due storie di terremoti ci ricordano come usare i soldi europei

Guglielmo Barone

In Irpinia, il sisma ha indotto un peggioramento della traiettoria di sviluppo. In Friuli, è stato un’occasione di crescita. Studi

Il dramma del terremoto dell’Irpinia, di cui in questi giorni ricorre il quarantennale, offre l’occasione per alcune riflessioni che, inattese, arrivano ai nostri giorni. In un mio lavoro di ricerca di qualche anno fa, scritto con Sauro Mocetti della Banca d’Italia (“Natural disasters, growth and institutions: A tale of two earthquakes”), ci chiedevamo quale fosse l’impatto di un  disastro naturale sullo sviluppo economico dei territori colpiti. A fronte di costi elevati nel breve periodo – morti, distruzione di parte dello stock di capitale, ricollocazione dei senzatetto – guardando al lungo termine la risposta a questo quesito è tutt’altro che scontata. Innanzitutto il forte afflusso di denaro per la ricostruzione (non finanziato con imposte o debito locali) ha  una funzione espansiva sul prodotto. Al contempo, la ricostruzione può essere l’occasione per migliorare le infrastrutture, acquistare macchinari più efficienti, per adattare insomma più rapidamente la struttura economica al contesto competitivo esterno.

 

Su di un piano meno tangibile, il trauma del sisma può rinforzare meccanismi cooperativi tra individui e rendere per questa via gli scambi più fluidi. Ma ci sono anche potenziali risvolti negativi: per esempio, i fondi per la ricostruzione possono generare corruzione ed eccesso di dipendenza dalla spesa pubblica, le migrazioni possono impoverire il capitale umano, etc. Guardando ai dati, stimavamo che a 20 anni dal sisma, l’Irpinia mostrava un Pil pro capite inferiore del 12 per cento rispetto a quello che avrebbe mostrato senza terremoto, approssimando quest’ultimo con quello di altre aree, non terremotate e  simili all’Irpinia prima del terremoto. L’aspetto singolare è che lo stesso esercizio statistico, replicato per il terremoto del Friuli del 1976 – anche qui un forte terremoto, un copioso afflusso di denari, stesso contesto storico-politico nazionale – mostrava  un guadagno del 23 per cento per il Pil pro capite dell’area colpita rispetto all’opportuno gruppo di regioni di confronto.

 

Cosa spiega questa differenza? Il diverso contesto esterno nel quale è avvenuta la ricostruzione. Prima del terremoto il Friuli, rispetto all’Irpinia, mostrava minori tassi di corruzione e un maggiore interesse dei cittadini verso la cosa pubblica (approssimato dalla partecipazione elettorale e dalla diffusione dei quotidiani). Riassumendo: in un caso, il sisma ha indotto un peggioramento della traiettoria di sviluppo; nell’altro è stato un’occasione di innalzamento duraturo della capacità di crescita economica. E a discriminare tra le due storie, una differente qualità delle cosiddette istituzioni, ovvero delle norme codificate e non che regolano i rapporti economici. Queste considerazioni ci parlano anche degli anni che ci si prospettano innanzi.

  

Fatte le debite proporzioni, anche oggi abbiamo un Paese da ricostruire: tre crisi (Lehman Brothers, debito sovrano, Covid-19) in meno di 15 anni, con un Pil pro capite in termini reali che a fine 2020 sarà inferiore al dato del 1995; una produttività stagnante dalla metà degli anni ’90; molti nodi irrisolti che riguardano il funzionamento della giustizia, la qualità dell’istruzione, gli squilibri demografici, i divari territoriali, l’enorme debito pubblico. E, come allora, abbiamo l’attesa messianica degli aiuti esterni: quelli del piano Next Generation EU. E’ qui che la lezione dei  terremoti torna utile.

 

Fuori dalla mistica dei moltiplicatori fiscali, oggi il massimo impegno deve essere profuso nel miglioramento del contesto che fa da sfondo alla poderosa immissione di spesa pubblica. Partendo dal funzionamento della macchina della pa, quale condizione necessaria per fare buona spesa pubblica. Facile a scriversi, difficile  a farsi. Nessun progettista serio, di fronte alla ristrutturazione di un edificio pericolante, si occuperebbe dell’arredo degli interni senza prima aver rinforzato le fondamenta. Purtroppo non sembra che il governo si stia muovendo in questa direzione se, come sembra, si stanno  impilando vecchi e polverosi progetti che giacevano nei cassetti ministeriali. E’ un’occasione unica, siamo a un bivio e occorre prendere la direzione giusta: il modello friulano. 

 

Guglielmo Barone, Università di Bologna

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