Fusioni, progetti, cambi. Nell’anno pandemico, la finanza riscopre che la debolezza degli istituti di credito italiani non è endogena ma è nella politica
C’era una volta la foresta pietrificata. Immobile, rigido, inefficiente, provinciale, il sistema bancario italiano per lo più in mano allo stato, non era cambiato molto fino ai primi anni 90. Da allora in poi è tutto un work in progress e i lavori sono più che mai in corso. In questo anno nerissimo, Intesa Sanpaolo ha assorbito Ubi la quarta banca italiana. La Unicredit, unica considerata “sistemica” dalla Bce, cambia vertice e strategia. Bper (la ex Popolare dell’Emilia-Romagna, che fa capo alla Unipol) si espande anche grazie agli sportelli che prenderà dalla Ubi. Il Crédit Agricole, uno dei principali gruppi in Italia lancia un’offerta sul Credito Valtellinese. Nel ventre di Mediobanca e delle Assicurazioni Generali crescono Che Banca e Banca Generali. Le Poste sono sempre più una piattaforma bancario-assicurativa. Il Monte dei Paschi di Siena, pecora nera dello scorso decennio, si accaserà con un partito più solido e ricco, forse Unicredit, forse il Banco Bpm numero tre in classifica, nato dalla fusione tra la Popolare di Milano e quella di Verona o forse la Bper. La peggiore soluzione sarebbe la troika dei deboli, come vorrebbero i grillini che guardano a Mps con Carige e Popolare di Bari. Mediolanum e Fineco sono tra le più solide d’Europa, due vere storie di successo. Fioriscono le banche online e quelle che hanno un profilo definito, che operano solo in Borsa, o sono legate alle professioni, alle piccole e medie imprese. Né benefattori né bankster, i banchieri devono far bene il loro mestiere.
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