In “These truths. A history of the United States”, Jill Lepore – storica americana fra le più note – racconta che quello del 1837 fu uno dei peggiori disastri finanziari della storia americana. Un disastro che aprì la strada a sette anni di profonda depressione e ai cosiddetti Hungry Forties, gli “affamati anni Quaranta” dell’Ottocento. Fra le altre cose, il panico del 1837 portò all’abolizione delle prigioni e alla “democratizzazione” della protezione per i debitori. La legge federale approvata nel 1841 fu abolita due anni dopo ma il principio rimase in vigore: si poteva dichiarare bancarotta e ricominciare da capo (fresh start). Le leggi fallimentari federali – pur fra ripetute modifiche – resero meno rischiosa l’assunzione di rischio e contribuirono non poco all’ondata di investimenti della seconda metà del secolo. E’ difficile non andare con la mente a questa vicenda rileggendo alcune fra le pagine più interessanti dell’ormai noto rapporto del Gruppo dei Trenta presieduto da Mario Draghi e Raghuram Rajan e, in particolare, le pagine sull’impatto dell’emergenza pandemica ancora in corso sulla legislazione sulla crisi di impresa. Nel rapporto si sostiene che consentire la ristrutturazione degli stati patrimoniali di imprese potenzialmente ancora vitali ma minacciate da problemi di insolvenza indotti dalla crisi (e, sarebbe più opportuno dire, dalla sequenza di crisi intervenuta nell’ultimo quindicennio) è certamente preferibile a soluzioni “punitive”, il cui unico risultato è quello di distruggere valore. Si sottolinea la necessità di apprestare per tempo le misure necessarie per affrontare l’ondata di casi di crisi d’impresa che presumibilmente si manifesterà nel momento in cui le “strutture protettive” messe in campo negli ultimi mesi finiranno per cadere.
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