La fila fa tutto il giro dell’isolato, passando accanto al Mc Donald’s, arrivando quasi alle poste. La luce alla fine dell’ora di attesa è la storica bottega di scarpe Gallon, in Piazza Sant’Eustorgio, a Milano, davanti all’Arco di Porta Ticinese. L’oggetto del desiderio sono le scarpe friulane, artigianali, in velluto, in tutti i colori e in tutte le taglie vendute al prezzo più basso in città. Lo stock di solito termina nel giro di un paio d’ore: giusto il tempo di pubblicare l’avviso sui social, sempre lo stesso: “Oggi torneranno disponibili un centinaio di friulane. La quantità di merce sicuramente non coprirà la richiesta, quindi non si accettano prenotazioni”. Seguito dal classico: “Le friulane in velluto dalla taglia 36 alla 40 sono terminate”. Il boom è avvenuto nel corso del primo lockdown, complice la rivelazione da parte di una influencer locale e il desiderio di assumere un aspetto “umano” anche in casa. La richiesta è stata talmente alta, che anche Gallon ha aperto la propria pagina Instagram e ha iniziato a fare consegne a domicilio in città. Ma non è l’unico: le vetrine delle vie dello shopping milanese, e non solo, sono piene delle babbucce con la classica suola in copertone di bicicletta, le cuciture in corda a vista e la tomaia colorata. Immaginiamo le “sciure” impellicciate arrivare a casa, e infilarsi le friulane in velluto abbellite da spille luccicanti, o con le proprie iniziali ricamate a contrasto e scivolare sul parquet, sentendosi sempre a posto, anche affrontando la chiusura in casa forzata.
Se oggi queste calzature vengono utilizzate dalle signore bene anche per passeggiare in città nel tempo libero, vendute nelle boutique veneziane con la stampa a righe che riprende la divisa dei gondolieri (che le usavano per non rovinare la vernice della gondola), lo dobbiamo alla Carnia, alle montagne del Friuli e a una tradizione che rende omaggio alla sua storia. “Io le chiamo scarpez, perché sa più di calzatura di montagna”, spiega Novella Del Fabbro, scrittrice e folklorista esperta delle tradizioni friulane, che ormai quasi trent’anni fa ha scritto il libro “Scarpez e galocios” e che mai si sarebbe aspettata una simile attenzione per le scarpe tipiche della sua terra. Le prime attestazioni di scarpez risalgono al 1700. Le spose le portavano con sé, come dote, da indossare nelle occasioni di festa. Durante la guerra, le “portatrici carniche” le utilizzavano per consegnare ai soldati cibo e rifornimenti e riportare a valle i cadaveri e i feriti. Addirittura, quelle che oggi sono considerate babbucce un po’ radical chic, venivano portate dalle guide alpine perché erano abbastanza leggere e silenziose da non allertare i nemici durante la guerra, ma così resistenti da non rovinarsi sui sentieri.
“Da bambina, nelle mattine d’inverno, sentivo il profumo della minestra di fagioli con l’osso affumicato di maiale e trovavo mia mamma intenta a sovrapporre una sopra l’altra le pezze per ricavare le suole – spiega Del Fabbro, 74 anni, originaria di Forni Avoltri in provincia di Udine – prendeva i vecchi pantaloni di velluto e di fustagno, teli e lenzuola in cotone. Insomma, tutti i tessuti che avevamo a disposizione e che fossero sufficientemente resistenti. Li stirava con il ferro da stiro a brace, poi metteva la forma per ritagliare la suola. Allora non c’era il materiale nemmeno per fare lo stampo del piede e si usavano i registri della latteria perché erano fatti di una carta molto consistente. Si cuciva tutto a zig zag con il filo ricavato dalla canapa coltivata dai contadini del posto, reso impermeabile dalla cera d’api”. Durante la guerra tra i 15 strati di pezze della suola, si usava anche inserire le foglie delle pannocchie quando non c’era più tessuto a disposizione.
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