Perché non è vero che BigPharma lucra sui vaccini
Sviluppare un vaccino significa assumere grandi rischi e costosi investimenti in ricerca e sviluppo. La stabilità delle case farmaceutiche è un business model diversificato. L'importanza della divisione consumer healthcare, vera cassaforte delle società: il paziente diventa consumatore. Parla Gilberto Turati, prof. di Economia della sanità alla Cattolica
La rincorsa è terminata. La somministrazione del primo vaccino, prodotto da Pfizer e BioNTec, potrà incominciare contemporaneamente in tutta Europa dal 27 dicembre. “Presto molti altri vaccini verranno approvati” ha ricordato Ursula von der Leyen in conferenza stampa “se risulteranno essere sicuri ed efficaci”. La scorsa primavera gli esperti avvertivano che avere un vaccino disponibile nel giro di 12 mesi sarebbe stato un successo, averlo in meno di un anno addirittura un miracolo. Ora, a distanza di neppure a 10 mesi la scienza ci offre la possibilità di guardare al futuro con deciso ottimismo.
Una porzione della popolazione, però, prova un grande risentimento nei confronti delle società farmaceutiche. Diversamente dai No Vax, queste persone riconoscono sia l’importanza del vaccino, sia gli sforzi compiuti dal mondo scientifico per ottenerlo. Ciò nonostante temono che questo antidoto sia l’ennesima opportunità per le grandi società del farmaco di arricchirsi. Contestualizzare il modo in cui le multinazionali farmaceutiche lavorano e generano profitti, può quindi essere utile a sgonfiare lo scetticismo che ha accompagnato la creazione del vaccino.
Negare i guadagni che produce un medicinale atteso da tutta la popolazione mondiale sarebbe insensato, ma allo stesso tempo è bene inquadrarne le caratteristiche: il vaccino è sinonimo di innovazione e cioè di incertezza, grandi rischi e costosi investimenti in ricerca e sviluppo. La stessa BioNTech, che si occupa principalmente di questi prodotti, prima del vaccino attuale non aveva alcun farmaco sul mercato e sopravviveva grazie anche a finanziamenti pubblici e privati. GlaxoSmithKline, leader del settore dei vaccini, ha da poco annunciato che la commercializzazione del suo vaccino quadrivalente, in collaborazione con Sanofi, sarà posticipato alla fine del 2021 “per una scarsa risposta immunitaria tra le persone più anziane”.
Per resistere alle incertezze e alle difficoltà di un settore così concorrenziale, le aziende farmaceutiche hanno sviluppato un business model diversificato, composto da varie divisioni. Al centro di questa struttura, adottata dai principali attori del mercato come Johnson & Johnson e Sanofi, c’è la sezione farmaceutica, che si occupa dei farmaci venduti solo dietro prescrizione medica. Garantisce alta marginalità commerciale grazie alla presenza dei brevetti, che però hanno una scadenza, e vi sono in ogni caso elevati costi di ricerca. Vi è poi la sezione vaccini o in alternativa quella diagnostica, che si concentra sulla produzione di strumenti di rilevazione delle malattie. Infine – in questa descrizione che non vuole essere la norma, ma solo la descrizione di una necessità del mercato – si trova la divisione consumer healthcare: la reale cassaforte di queste aziende, che assicura loro risorse certe anche in momenti di crisi.
Questo ramo aziendale trasforma il paziente in consumatore, offrendogli un insieme di prodotti per il benessere personale che si acquistano in farmacia o nei centri commerciali senza bisogno della ricetta medica. Questo segmento si concentra sulla creazione del brand e sulla capacità di estrarre da esso valore, attraverso campagne di marketing. Per questi motivi “le divisioni consumer garantiscono almeno in parte la stabilità dei profitti di cui le società farmaceutiche hanno bisogno” racconta al Foglio Gilberto Turati, professore di Economia della sanità all’Università Cattolica. Inoltre, questi prodotti non sono coperti da brevetto e ciò non lega una società alla perdita automatica di ricavi quando esso scade.
Il consumer healthcare, che rappresenta più del 25 per cento del volume di affari per GSK, è in grande crescita per due principali motivi. Da un lato l’allungarsi della vita media è accompagnato da un maggior consumo di prodotti di prevenzione ed automedicazione; dall’altro i farmaci da banco, specialmente quelli per l’alimentazione e la cura della pelle, attirano facilmente molta pubblicità sui social network. Il pericolo, come sottolineato nel bilancio 2019 di Sanofi, è invece che il messaggio possa essere distorto dalla rapida comunicazione dei social o che “si diffonda il Dottor Internet” ammonisce ancora Turati, analizzando l’ipotesi – sempre più possibile – che il commercio dei farmaci over-the-counter venga esteso anche alle piatteforme digitali.
Tuttavia, la tentazione di concentrarsi eccessivamente sul consumer healthcare può rivelarsi rischiosa per le multinazionali farmaceutiche. Il pericolo è di entrare in concorrenza con chi produce beni di largo consumo, che per sua natura è più abile ad estrarre valore dagli asset che immette sul mercato. L’appetito di questo genere di aziende è sempre più evidente come dimostra l’acquisizione da parte di Procter & Gamble della divisione consumer healthcare della tedesca Merck nel 2018.
In controtendenza rispetto a molti concorrenti, Novartis e Roche hanno invece rinunciato al segmento consumer per concentrarsi unicamente sull’aspetto farmaco-medicale, rivolgendo un chiaro messaggio ai propri azionisti sulla loro tendenza ad essere pure pharma. “Fino ad ora gli investitori – ricorda Turati - sembrano preferire le società che includono una divisione consumer, poiché offrono la possibilità di espandere il core business tramite acquisizioni”.
In attesa che sia il mercato a decidere quale sarà il modello vincente, continua il particolare andamento dei titoli farmaceutici in Borsa: il loro crollo verticale dopo la dichiarazione della pandemia è stato assorbito, ma nemmeno le azioni di Pfizer, produttore del primo vaccino autorizzato in Europa, valgono ora più di quanto valessero ad inizio 2020. A dimostrazione che il vaccino è solo uno dei tanti elementi che rendono così ricche le multinazionali del farmaco.