Li descrivono come i nuovi schiavi, i nuovi sfruttati, i nuovi oppressi e li raccontano come se fossero le nuove inevitabili vittime di un mondo meschino, dominato da un capitalismo brutto, sporco e selvaggio. Li descrivono così, ragionando solo su quello che dovrebbero avere e non hanno, riflettendo solo su quello che dovrebbero ottenere e non ottengono, e li raccontano descrivendoli per quello che non sono, come se fossero non i protagonisti di un nuovo mondo ma gli ultimi schiavi del presente. Ci sarebbero tante magnifiche figure professionali da mettere a fuoco per raccontare alcuni lavori che meglio degli altri incarnano quello che è stato l’anno che finalmente se ne va. Ma se si mettono da parte tutti gli eroi del nostro mondo sanitario ci si renderà conto facilmente che una delle figure simbolo del duemilaventi è stata senza dubbio quella dei rider. Lo sono, naturalmente, per quello che hanno fatto, per il sollievo che ci hanno dato, per il conforto che ci hanno offerto, per le merci che ci hanno consegnato, per il cibo che ci hanno portato, per i pacchi che ci hanno recapitato, ma lo sono anche per una ragione persino più importante e che ha a che fare con ciò che i rider rappresentano, per la nostra economia, e che i professionisti della morale sistematicamente tendono a ignorare. I rider non sono i nuovi schiavi, non sono i nuovi sfruttati, non sono i nuovi oppressi, ma sono il simbolo di una formidabile generazione di ragazzi, più flexy che choosy, che ha scelto di mettersi in gioco, di farsi in quattro e di provare a guadagnare qualcosa senza aspettare il lavoro dei sogni per alzarsi dal proprio divano.
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