L’Italia si avvia al quarto governo tecnico in tre decenni. Come già Ciampi, Dini e Monti, anche Draghi è chiamato a gestire un momento di grave difficoltà. Ma la crisi attuale è ben diversa dalle precedenti, e quindi anche il governo Draghi potrà differenziarsi dai tecnocrati che l’hanno preceduto. Questi ultimi affrontarono emergenze di bilancio, che richiesero politiche di austerità e riduzione del deficit. Non a caso i governi Dini e Monti attuarono due dei passi principali della riforma pensionistica che ha corretto gli squilibri storici del nostro sistema previdenziale. Né è casuale che quei governi abbiano goduto di scarso consenso: l’opinione pubblica tende a punire chi adotta politiche di austerità. Il meccanismo è facilmente comprensibile. I costi dell’austerità sono chiari e immediati. I suoi benefici, benché maggiori, sono diluiti nel tempo e meno leggibili. Gli italiani tendono a sottostimare le conseguenze di un default, di cui non abbiamo esperienza diretta; e a sottovalutare il bisogno di austerità, non cogliendo precisamente il rischio di tenuta dei conti pubblici. L’impopolarità dei governi tecnici si è rivelata un grave problema: per ovvie ragioni di legittimità democratica; ma anche perché i cittadini, esausti dall’accoppiata di austerità gravosa e rappresentanza insufficiente, finiscono per rigettare i tecnocrati e premiare proposte politiche populiste.
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