Foto Claudio Furlan - LaPresse

Calta ma non solo. Dove porta il primo risiko dell'éra Draghi

Stefano Cingolani

Prima di coniare un termine per la strategia del nuovo premier, meglio osservare gli eventi fra le big della finanza italiana. Anche perché, garantisce Draghi stesso: lo stato è al più un garante del mercato

Ci sono tre grandi capitalisti italiani, Benetton, Caltagirone e Del Vecchio (in ordine alfabetico) e c’è la troika della finanza italiana che da anni e anni non trova pace: Generali, Mediobanca e Unicredit. I tre capitalisti li troviamo ovunque: Del Vecchio in Unicredit con l’1,95%, in Mediobanca dove è il primo azionista singolo e in Generali dove è il numero due; Benetton in Generali e Mediobanca così come Caltagirone che a piazzetta Cuccia ha superato l’un per cento e continua a comprare pacchetti nel Leone di Trieste dove possiede il 6% circa collocandosi al secondo posto dopo Mediobanca.

 

I tre si muovono in parallelo, non sono un nocciolo duro alla francese, forse lo diventeranno forse no, ma certo il modello transalpino può essere un punto di riferimento per capire il risiko dell’èra Draghi evocato anche dall’ultima mossa del costruttore romano. L’obiettivo convergente è far nascere un polo d’attrazione formato da azionisti italiani finanziariamente robusti, per dare stabilità e solidità a quel polo banche-assicurazioni che intermedia e gestisce tanta parte del risparmio privato e dei titoli di stato. Il risiko sovranista non è durato a lungo e non ha dato frutti tanto era velleitario e retrò: prima gli italiani, nazionalizzare il più possibile, respingere gli invasori. Il Copasir guidato dalla coppia Lega-Fratelli d’Italia, nelle persone del presidente Raffaele Volpi e del vice Adolfo Urso ha gridato al lupo d’oltralpe che stava mettendo le mani sul triangolo d’oro.

 

Non tutti i suoi allarmi erano infondati se togliamo quel tanto di autarchia e persino di xenofobia che ha imperato nei talk show, perché dalle due crisi succedutesi tra il 2008 e il 2012 l’Italia è uscita indebolita e gli acquisti “a buon mercato” sono aumentati. Persino una operazione complessa e di portata strategica come la nascita di Stellantis è stata letta in questa chiave: i francesi di Peugeot si sono divorati la Fiat e lo stato francese, azionista di minoranza, va bilanciato dallo stato italiano che deve possedere un pacchetto equivalente. E’ vero che Del Vecchio ha rovesciato gli equilibri a suo favore in Essilux, ma anche lì il governo di Parigi ha messo lo zampino per presidiare i suoi interessi nazionali. Insomma, un duello infinito come quello dei due ufficiali napoleonici nel racconto di Joseph Konrad.

 

Intanto le cose cambiano. Cominciamo da Unicredit dove la spinta degli azionisti italiani, soprattutto le fondazioni di Torino e Verona, stimolati da Del Vecchio, è stata decisiva per spingere verso l’uscita Jean Pierre Mustier e nominare il nuovo amministratore delegato, Andrea Orcel, un italiano dalla lunga esperienza internazionale come banchiere d’affari. Nel frattempo, proprio Del Vecchio annunciava di avere comprato oltre il 13% delle azioni Mediobanca avvicinandosi così a quel tetto del 20% autorizzato dalla Bce. Con Vincent Bolloré ormai emarginato in un modesto 2,8% (il finanziere francese ha altre gatte da pelare in Tim e Mediaset), un patto di consultazione composto anch’esso da investitori italiani (tra i quali Mediolanum, Fininvest e Benetton) con il 12,6% in portafoglio e l’arrivo di Caltagirone, il nucleo nazionale diventa dominante.

 

Mediobanca possiede a sua volta il 12,97% delle Generali e tre dei suoi azionisti sono soci forti nella compagnia d’assicurazione, Caltagirone e Del Vecchio molto attivi, più cauti i Benetton i quali prima debbono risolvere il pasticcio autostrade. E’ un intreccio che non può non esercitare un impatto sulla strategia e sulla governance. Ciò vuol dire che Philippe Donnet di qui alla scadenza del prossimo anno, deve preoccuparsi? L’amministratore delegato ha distribuito fior di dividendi e i conti vanno bene nonostante la pandemia. Ma il Leone non ruggisce, è rauco da troppo tempo, ha perso posizioni su scala europea e internazionale rispetto ai concorrenti, soprattutto francesi e tedeschi.

 

Abbiamo parlato di un risiko dell’era Draghi. Come definirlo? Sovranismo di mercato non funziona. Colbertismo all’italiana ricorda Giulio Tremonti. Campioni nazionali è un altro francesismo. Eurolocal, mettendo insieme europeismo e insediamento locale, fa il verso a glocal. Forse è presto per assegnare etichette, meglio osservare gli eventi. Sappiamo che il capo del governo non è un dirigista, lo ha dimostrato come governatore della Banca d’Italia aprendo la strada alla girandola di mega acquisizioni tra 2007 e 2008 (Intesa-Sanpaolo, Unicredit-Capitalia, Montepaschi-Antonveneta) tutte operazioni realizzate senza autorizzazione preventiva. Ma sappiamo anche che come presidente della Bce e del Financial stability board ha dedicato una particolare attenzione alla stabilità finanziaria e non più soltanto monetaria, ciò significa guardare alla emissione di denaro liquido e ai tassi di interesse, ma anche alla solidità del capitale di tutti gli intermediari, banche, assicurazioni, fondi d’investimento.

 

Alcune delle decisioni più importanti sia sulle regole sia sulla struttura patrimoniale in Italia e all’estero sono state prese proprio durante la gestione Draghi. E’ chiaro, dunque, che abbia un’attenzione e una sensibilità particolare. In base alla sua dottrina e alla sua prassi il consolidamento deve partire dall’interno, quindi debbono farsene carico in primo luogo gli azionisti. Prima il mercato, insomma. Quanto allo stato, meglio che eserciti il ruolo di legislatore, guardiano e semmai garante. Draghi ha una bella grana ereditata dal passato e riguarda la sorte del Montepaschi. La banca senese andrebbe privatizzata entro il prossimo anno. Una delle ipotesi è che possa finire in un modo o nell’altro nel triangolo del nord. Mps ha perso 2,7 miliardi di euro tra 2019 e 2020, ha bisogno di almeno 2,5 miliardi di capitale e il governo ha accantonato la sua quota: sono 1,6 miliardi, non proprio noccioline che si aggiungono ai 5,4 miliardi stanziati nel 2017 e a tutto quello che è già stato gettato nel pozzo senza fondo. Risolvere il pasticcio senese sarà un test importante anche per delineare il risiko di Draghi.

 

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