Draghi e la sfida della concorrenza: basta con i tabù
Puntare su una nuova politica industriale senza penalizzare il mercato. È possibile? Una strada c’è
La politica industriale ritorna prepotentemente sulla scena pubblica. Dopo i fasti del secondo dopoguerra e la sua crisi negli anni ’80 e ’90 del secolo scorso quando venne in gran parte sostituita dalla politica della concorrenza, dalle liberalizzazioni e dalla regolazione indipendente, alle quali erano affidate la crescita e la competitività, la politica industriale occupa sempre più spazio nell’agenda dei governi e delle stesse istituzioni europee che ne avevano decretato il superamento. Anche chi è fermamente convinto che l’economia di mercato è necessaria per produrre ricchezza e innovazione, deve ammettere che sono all’opera forze potenti che portano a ridefinire i rapporti tra Stato e mercato. Tra i fatti che alimentano questa tendenza è sufficiente citare: la crisi finanziaria e poi dell’economia reale scoppiata nel 2008, la modesta crescita registrata in Europa e soprattutto in Italia, l’affermazione del neomercatilismo e del capitalismo di stato cinesi che alterano il “level playing field” tra imprese occidentali (sottoposte alle regole del mercato e in Europa al divieto di aiuti di Stato) e le imprese sussidiate dalla Repubblica popolare cinese, la tendenza delle superpotenze a utilizzare l’economia per finalità geopolitiche, la competizione tecnologica che vede dominare Stati Uniti e Cina a scapito dell’Europa, la connessa perdita di autonomia di quei Paesi che dipendono da tecnologie dominate da altri, il tutto in un contesto caratterizzato dalle transizioni “gemelle” verde e digitale.
La pandemia non ha fatto altro che rinvigorire tendenze che erano già presenti a favore di un forte intervento pubblico. Non c’è soltanto la mostruosa crescita della spesa pubblica basata sul debito e il finanziamento degli Stati e delle imprese da parte delle banche centrali, ma c’è il tentativo di ridefinire le strutture dell’economia e della società attraverso specifiche politiche pubbliche. In fondo è a questo che ci si riferisce quando si parla di transizione verde e digitale. Una transizione che è al centro dell’azione dell’Unione europea e degli Stati membri, con l’European Green Deal, Next Generation Eu e i connessi Piani nazionali di ripresa e resilienza. Ne risulta un vasto programma di politica industriale condiviso tra Unione e Stati membri, se con questa espressione intendiamo le politiche che prendono come oggetto un certo ambito di attività economiche per realizzare dei benefici per la società. Una politica industriale addirittura di portata più ampia di quella che abbiamo conosciuto nel secolo scorso. Si tratta infatti di rimodellare praticamente tutti i settori dell’economia, di favorire un’innovazione disruptive, di scegliere le tecnologie da promuovere, di creare nuovi mercati, di favorire l’affermazione di nuovi players tecnologici ed economici, di compensare chi subisce un danno dalla de-carbonizzazione dell’economia, di modificare i comportamenti di consumo, di andare oltre l’obiettivo della crescita per promuovere un social welfare di lungo termine. Quale sarà il ruolo del mercato in un contesto così profondamente cambiato? Stiamo riportando indietro le lancette della storia al periodo dello stato imprenditore, della scelta politica dei “vincitori”, del protezionismo?
Peraltro il revival della politica industriale non cancella i problemi cui essa ha dato luogo in passato e che si riassumono nei limiti, di informazione e di conoscenza, dei burocrati che devono sostituirsi al mercato nel decidere come allocare le risorse (in pratica scegliendo i “vincitori”) e sui rischi di cattura del decisore da parte dei più forti gruppi di pressione e dei rent seekers. Tuttavia un’altra direzione è possibile all’insegna di quella che, sulla scia di Dani Rodrik, possiamo chiamare la “nuova politica industriale”, che vede andare mano nella mano Stato e mercato. Una politica industriale che non è basata su processi top-down ma sulla collaborazione tra pubblico e privato, sullo scambio di informazioni e di competenze, sulla mobilitazione di risorse sia pubbliche che private verso obiettivi condivisi, sull’individuazione di incentivi e vincoli regolatori per le imprese che operano nel mercato, sulla trasparenza e il monitoraggio dell’implementazione delle scelte e dei risultati conseguiti, sull’accountability, sul dialogo e la ricerca del sostegno della società civile, sulla promozione dell’innovazione anche a rischio di esporsi in certi casi al fallimento, sulla creazione di un ambiente favorevole alla concorrenza basata sull’innovazione. Questa nuova politica industriale, recentemente rilanciata dall’autorevole think tank bruxellese Bruegel, è un tentativo di superare pragmaticamente la contrapposizione ideologica tra interventi “state-driven” e soluzioni puramente “market-based”.
In questa prospettiva dei segnali importanti si trovano nelle dichiarazioni programmatiche del Premier Mario Draghi, che, da una parte, ha insistito sul sostegno pubblico da dare alla ricerca, all’innovazione, alla transizione verde e digitale, ma dall’altra ha richiamato l’importanza della concorrenza, fino a rilanciare la legge annuale sulla concorrenza e il mercato. Ma soprattutto va sottolineata la forza del quadro giuridico-istituzionale europeo. Il mercato interno ha un solido fondamento nei Trattati e nelle leggi europee, impedendo il ritorno del protezionismo e garantendo la concorrenza. Tutti i documenti recenti della Commissione vedono nell’irrobustimento del mercato interno uno dei principali modi per favorire la crescita dimensionale delle imprese europee, specie nell’economia digitale e verde, e stimolare un’innovazione che possa remunerare adeguatamente chi la produce. Inoltre il divieto di aiuti di stato, ammessi solo in presenza di specifiche condizioni e che ha subito deroghe temporanee durante la pandemia, non potrà consentire ai governi di avvantaggiare determinate imprese a scapito di altre, pregiudicando la concorrenza basata sui meriti. La grande sfida che attende l’Unione europea e i governi, a partire da quello guidato da Mario Draghi, è come sposare in concreto la politica industriale con il mercato e la concorrenza.