Perché l'Ue non trova la bussola sul bollino della sostenibilità
Oggi le grandi imprese sono intrappolate in una fitta maglia di indici e pagelle, standard etici, ambientali, produttivi, sociali, criteri spesso diversi che riguardano comportamenti e responsabilità. Che succede se la rete si estende anche alle aziende medio-piccole?
Potremmo chiamarla (non si offenda Milan Kundera) l’insostenibile leggerezza della sostenibilità. Ormai l’impresa è sostenibile o non è: il mantra, ripetuto da anni, con la pandemia è diventato un dogma; sappiamo che riguarda tre fattori chiave, ambiente, impatto sociale, rapporti di lavoro, ma come calcolarli? Chi non è sostenibile non viene finanziato dai mega fondi di investimento ed è difficile che possa superare i paletti dei guardiani delle borse; non solo, spesso non si riesce nemmeno a sapere quanto vale davvero una impresa che, accanto al bilancio finanziario, deve presentare un bilancio di sostenibilità. Qui siamo in piena babele, perché non esiste un unico standard; criteri, norme, linguaggi, indici, organismi sono tutti diversi. L’elenco è impressionante: TCFD (Task Force on Climate-Related Financial Disclosures) nata nel 2015 dal Financial Stability Board; CDSB (Climate Disclosure Standards Board), consorzio internazionale di nove ong imprenditoriali ed ecologiste, lanciato nel 2007 a Davos; SASB (Sustainability Accounting Standards Board), organizzazione americana indipendente fondata nel 2011; IIRC (Integrated Reporting Council) l’organismo che ha disegnato la cornice del bilancio integrato; EFRAG l’ organismo di consulenza della commissione europea sulle materie contabili; il GRI (Global Reporting Initiative) che ha fissato 38 linee (utilizzate in Italia dal 90% delle società interessate); lo IASB (International Accounting Standard Board) che redige i principi contabili internazionali stabiliti dalla IFRS Foundation, organizzazione senza scopo di lucro.
C’è da perdere la testa. Sia in Europa da parte della commissione di Bruxelles sia negli Stati Uniti attraverso la SEC (Security and Exchange Commission), si sta cercando una bussola. Chi la deve fornire, il regolatore pubblico dall’alto o le imprese dal basso? Il dilemma si ripropone in modo stringente perché sono in ballo non solo teorie, ma denari sonanti e finora solo una minoranza di grandi imprese ha aderito alle direttive indicate dalla TCFD. Adesso l’Unione europea vuole stringere i tempi spingendo i paesi aderenti a prendere una decisione rapida fin da questa settimana, almeno sulla carta. La Ue ha approvato nel 2017 una direttiva, recepita dall’Italia, ma è stata vissuta come un onere più che come un valore, anche perché non esiste nulla del genere in America per non parlare dell’Asia. Le imprese, dunque, chiedono che si applichino ovunque gli stessi criteri. La commissione ha lanciato una consultazione pubblica. L’8 marzo l’EFRAG ha licenziato le sue proposte sotto forma di ben nove rapporti. Sono in tutto 736 pagine e spiccano 54 raccomandazioni. Il compito di redigere i principi veri e propri verrebbe affidato, secondo il presidente, il francese Jean Paul Gauzés, ad un nuovo organismo specializzato che affiancherebbe quello incaricato del reporting finanziario. La Ue, insomma, dovrebbe stabilire gli standard, in pieno regime dirigistico.
Un colbertismo su scala europea, che si estende (questa la novità dell’ultimo momento) anche alle imprese con oltre 250 addetti. E’ sceso in campo con una ispirazione diversa, lo IASB il quale, sostenuto dalla IOSCO, l’associazione internazionale delle diverse Consob, si impegna a proporre entro settembre un proprio progetto fondato sulla collaborazione dei maggiori soggetti interessati, insomma più un’autoregolamentazione che una norma imposta dall’esterno. Andrà a integrare l’impostazione europea o sarà contrapposta? L’economista Lucrezia Reichlin è molto impegnata in questo dibattito che, sostengono i dirigisti europei, sta molto a cuore agli interessi dei quattro grandi della contabilità aziendale: Deloitte, Ernst & Young , KPMG e PricewaterhouseCoopers. Modello renano contro modello anglosassone, capitalismo contro capitalismo, si ripropone un vecchio conflitto sia pur su basi nuove. Negli Stati Uniti dove Joe Biden ha aperto la porta alla marcia trionfale della sostenibilità, la SEC pende più verso una normativa obbligatoria. ”Quando si dispone di un quadro volontario – ha detto Allison Lee, la presidente della commissione – non tutti danno informazioni, e questo significa lacune significative. Può significare un campo di gioco non uniforme per molte aziende e significa anche incongruenze tra coloro che forniscono informazioni sull’impatto della propria impresa sul clima”.
Non è solo una battaglia di principi, è in ballo la stessa possibilità di fare confronti validi, ciò vuol dire che gli investitori (i quali oggi non sono più pochi ricchissimi con panciotto e sigarone, ma le vedove scozzesi e i pensionati americani) non possono essere sicuri che le informazioni siano affidabili. Il problema resta insoluto, così anche la SEC ha messo al lavoro un comitato di 22 membri per sbrogliare matasse che sembrano imbrogliarsi a mano a mano che dal cielo della speranza si scende sulla terra e dalle definizioni general-generiche si entra nei dettagli. L’Italia non ha preso apertamente posizione, ma dovrebbe seguire la via europea. Tuttavia Mario Draghi, che è stato a lungo presidente del Financial Stability Board, ha un orecchio sensibile alle preoccupazioni espresse dalle imprese, quindi alla impostazione dello IASB. Il prossimo presidente dell’organismo sarà tedesco e, nonostante quel che si pensa comunemente, il mondo degli affari in Germania si sente più vicino a Wall Street che a Parigi. L’Assonime, associazione delle aziende italiane quotate in borsa, è preoccupata da una impostazione rigida e verticistica, con il rischio di provocare ulteriori fratture aumentando la confusione. Oggi le grandi imprese sono intrappolate in una fitta maglia di indici e pagelle, standard etici, ambientali, produttivi, sociali, criteri spesso diversi che riguardano comportamenti e responsabilità. Che succede se la rete si estende anche alle aziende medio-piccole? Una sola cosa è certa: la sostenibilità resta, ancora, troppo leggera per essere vera.