soundcheck
Gli aiuti alla ripresa non sono un regalo
Tornerà il momento di aumentare le tasse, per finanziare tutto il deficit prodotto per sconfiggere la crisi economica. Washington e Londra già si preparano
Cinquemilaseicentottantatré. Sono i miliardi messi in campo dagli Stati Uniti per contrastare la crisi economica nata con la pandemia. Una manovra bipartisan, iniziata con Donald Trump e continuata da Joe Biden. Una potenza di fuoco impressionante, che rappresenta circa il 25 per cento del pil americano. L’economia statunitense è stata sommersa di dollari presi a debito per finanziare gli aiuti economici e oliare il motore dell’economia in vista della ripresa. Per capirci, solo con l’ultimo intervento di Biden da 1.900 miliardi di dollari le previsioni di crescita degli Usa sono più che raddoppiate secondo l’Ocse per il 2021. In Europa siamo stati più cauti. L’Eurozona, secondo una stima della Bce, ha speso fino a ora una cifra corrispondente a circa il 5 per cento del proprio pil per sostenere il sistema economico. In attesa del Next Generation Eu, che da oggi al 2026 varrà altri 5 punti di pil. Benché le percentuali impallidiscano rispetto a quanto fatto dagli Usa in solo un anno, si tratta comunque di un gran passo in avanti rispetto al 2009, quando di fronte alla più grave crisi dal 1929 i paesi dell’Eurozona spesero solo l’1 e mezzo per cento del loro reddito.
Un’enorme quantità di liquidità, resa possibile dalle politiche accomodanti delle banche centrali, che aiuterà il mondo a riprendersi velocemente dalla crisi economica dovuta al nuovo coronavirus. Se non tanto velocemente quanto siamo caduti nella recessione, almeno quasi. Come ha evidenziato un articolo degli economisti De Grauwe e Ji, la produzione industriale mondiale è tornata a -5 per cento rispetto all’inizio della crisi da Covid dopo meno di 10 mesi. Nel 2008 per raggiungere lo stesso risultato erano stati necessari sostanzialmente due anni. Nel 1929, con la Grande Depressione, non erano stati sufficienti nemmeno 50 mesi. Evidentemente economisti e governi hanno imparato la lezione del 2008, quando per la troppa cautela e paura di aumentare i debiti pubblici gli stati non fecero abbastanza per uscire in fretta dalla crisi economica.
Ma tutti questi soldi non sono creati dal nulla. Sono finanziati aumentando il debito pubblico dei paesi. Oggi è un’operazione a costo ridotto, perché le banche centrali mantengono bassi i tassi di interesse. Ma in futuro potrebbe non essere così. Basti vedere la preoccupazione europea di fronte alla possibilità che i tassi aumentino, spinti dalla crescita americana. Se così fosse, e nelle ultime settimane i titoli di stato americani stanno tornando sui livelli pre pandemia, gli stati europei si troverebbero nella sgradevole condizione di non essere ancora usciti dalla recessione, ma con tassi in rialzo che scoraggiano gli investimenti e l’indebitamento.
L’Italia dall’inizio della pandemia ha stanziato più di 120 miliardi. E altri ancora ne serviranno, come ha annunciato il presidente del Consiglio Mario Draghi, fino a completare la ripresa (secondo la Commissione europea il pil dovrebbe tornare ai livelli pre Covid entro il 2022). E per allora i governanti dovranno convincere i cittadini (ed essere convinti loro stessi) che la politica dello spendi e spandi non è sostenibile nel lungo periodo. Tornerà il tempo del patto di stabilità (magari riformato), delle coperture, dei decimali di deficit. Il nostro elevatissimo debito pubblico sta lì a ricordarcelo. E tornerà anche il momento di aumentare le tasse, per finanziare tutto il deficit prodotto per sconfiggere la crisi economica. Non a caso i due paesi occidentali messi meglio con le vaccinazioni (e che dunque faranno ripartire prima i loro sistemi economici), Stati Uniti e Regno Unito, hanno dichiarato l’intenzione che non oggi, non domani, ma presto aumenteranno le tasse. Il governo conservatore inglese ha annunciato di voler aumentare le imposte sui profitti aziendali dal 19 al 25 per cento, per le medie e grandi imprese a partire dal 2023. Il presidente Biden ha fatto altrettanto ultimamente, facendo intendere di voler aumentare le tasse per le famiglie che guadagnano più di 400 mila dollari all’anno, e per le aziende più ricche. Si tratterebbe del primo aumento rilevante delle tasse per gli americani dal 1993. Forse non è nemmeno un caso che i due paesi anglosassoni siano tra i più disuguali del mondo. Disuguaglianza – di reddito, di opportunità, di patrimonio – che la pandemia ha esacerbato, e che quindi i governi – anche quelli conservatori – evidentemente mettono nel mirino.
Lo dicevamo prima della pandemia, e dobbiamo dirlo anche adesso: i soldi non sono infiniti, e i trade-off esistono sempre. Anche quando il costo del denaro è bassissimo e mezza economia è ferma da oltre un anno per una pandemia globale. Anche nelle parole di Draghi riecheggia questa condizione: “Questo è un anno in cui non si chiedono soldi, si danno” ha detto durante la sua prima conferenza stampa venerdì. Il premier parla di quest’anno, facendo intendere che nei prossimi qualcosa dovrà cambiare. L’importante sarà che a riconoscerlo, oltre a Draghi, siano anche i leader politici che ci hanno portato al 130 per cento di debito pubblico prima della pandemia. Sperando che i sette consecutivi scostamenti di bilancio da marzo scorso a oggi non li abbiano ubriacati di deficit.