La curva di Via Veneto
È il luogo dove si fronteggiano il ministero del Lavoro e quello dello Sviluppo economico. Lo snodo chiave del governo
Una curva divide Giancarlo Giorgetti e Andrea Orlando, così ci dice la toponomastica del potere; una sola curva e poche decine di metri. A destra Giorgetti, ça va sans dire, a sinistra Orlando. Ma potrebbe anche essere il contrario, dipende da dove s’imbocca la leggendaria via Veneto che collega piazza Barberini a Porta Pinciana. Non viviamo forse nell’era post-ideologica il cui guru è niente meno che il compianto Giorgio Gaber? Noi preferiamo partire sempre dal centro, geografico in questo caso, quindi dalla fontana del Bernini; così, sul marciapiede di destra, al numero 27 incontriamo un capolavoro dell’architettura fascista, il palazzo progettato dall’archistar del regime, Marcello Piacentini, per il ministero delle Corporazioni, che oggi ospita il Mise (ministero dello Sviluppo economico), che un tempo era anche il quartier generale dell’Iri. Lì siede e opera Giorgetti. A pochi metri di distanza, al numero 56, mentre la strada si apre verso l’ambasciata americana, ecco il ministero del Lavoro e della protezione sociale dove è insediato Orlando.
Tra l’uno e l’altro fanno la spola da sempre cortei, picchetti, manifestazioni di protesta, con fischietti e tamburi sindacali, striscioni, bandiere rosse, verdi, bianche, azzurre. Il lockdown ha rarefatto, ma non svuotato la scena. Quel che viene eufemisticamente chiamato disagio sociale getta un ponte girevole e Giorgetti così come Orlando diventano le sponde sulle quali s’infrange l’onda della crisi. Avvinti da un comune destino, i due ministri sono, all’interno del governo, gli esponenti più in vista dei partiti che da destra e da sinistra si contendono le spoglie del Movimento 5 stelle: la Lega rappresentata da Giorgetti e il Pd che ha delegato Orlando a fare da cinghia di trasmissione con i corpi intermedi, i sindacati, la Confindustria, le corporazioni del lavoro.
Le affinità in apparenza finiscono qui perché provenienza, cultura, storia politica e professionale sono lontanissime. Giorgetti, 55 anni, brianzolo di Cazzago Brabbia dove ha ricoperto il ruolo di primo cittadino dal 1995 al 2004, ha una lunga militanza che comincia tra i post fascisti del Movimento sociale, nel suo caso il Fronte della gioventù. Errori appunto di gioventù che si sublimano nell’incontro con Umberto Bossi e la Lega lombarda. Entra alla Camera dei deputati nel 1996, l’anno della vittoria di Romano Prodi alla guida dell’Ulivo. Nel 2001, con il governo guidato da Silvio Berlusconi, diventa sottosegretario alle Infrastrutture e poi presidente della Commissione bilancio di Montecitorio, una delle posizioni parlamentari più importanti. Intanto fallisce il Credieuronord, la banca leghista della quale era stato consigliere, un’ombra politica e professionale per un revisore dei conti come Giorgetti. E’ vero che la classe dirigente della Lega, quella di governo, ma anche quella di lotta, è zeppa di commercialisti, ma lui si è laureato alla Bocconi in Economia aziendale ed è cugino di Massimo Ponzellini, il banchiere prodiano folgorato da Bossi che ha ricoperto posizioni non secondarie, pubbliche (la Patrimonio spa, la Zecca) e private (la Banca Popolare di Milano). Indagato nel processo per il crac e poi assolto, Giorgetti ha avuto la prontezza di spirito di restituire al mittente una bustarella da 100 milioni di euro portata nel 2004 niente meno che da Gianpiero Fiorani, il capo della Banca popolare di Lodi che voleva scalare la Bnl e, udite udite, il Corriere della sera. Il deputato non era nel suo ufficio alla Camera, e quando scoprì la mazzetta nascosta in una copia della Repubblica chiamò Fiorani e gli disse di riprendersela “perché lui era contrario volendo moralizzare il partito”, come rivelò lo stesso banchiere agli inquirenti. Secondo il Fatto quotidiano Giorgetti doveva denunciarlo alla magistratura, ma i gesti eclatanti, le sfide aperte, non fanno parte del suo stile, inoltre tra il Carroccio e le procure non c’è la stessa simbiosi mostrata dal quotidiano di Marco Travaglio.
Il ministro dello Sviluppo è stato per molti versi il Massimiliano Cencelli della Lega, l’uomo delle trattative condotte dietro le quinte, il suggeritore discreto quanto determinato, al quale spetta la parola decisiva nelle nomine e nella occupazione del potere economico, come nel caso della Finmeccanica ai tempi di Giuseppe Orsi, e non solo perché nello stabilimento dell’Agusta lavorava suo fratello, ma per proteggere il lavoro lombardo. E’ rimasto alla corte di Matteo Salvini, poi “tomo tomo cacchio cacchio”, avrebbe detto Totò, ha disincagliato il partito dagli scogli del sovranismo nel quale si era schiantato, diventando l’esponente più apprezzato dai sciur Brambilla, dalle partire Iva, dai piccoli imprenditori del nord est, insomma dai ceti di riferimento. Nel partito è l’anello di congiunzione con i veneti che ormai non possono più soffrire Salvini e con “il doge” Luca Zaia. Nel governo è l’alleato chiave per Draghi, nella Ue viene considerato l’artefice dell’appeasement (parlare di svolta europeista è eccessivo viste le manovre del Capitano). Sulle partite economiche più importanti ha la nomea dell’unico leghista che conosca i dossier. Ha preso nelle sue mani il tormentone della rete unica, nonostante spetti in modo prevalente al ministro per la Transizione digitale, cioè Vittorio Colao. In un’intervista pubblicata giovedì scorso dal Sole 24 Ore ha chiesto alle imprese coinvolte (Tim da un lato, Enel e Cdp con Open Fiber dall’altro) di dire chiaramente cosa vogliono. “Il progetto è ancora attuale”, ha dichiarato Giorgetti, ma in quale forma? Il ministro si è detto favorevole alla concorrenza la quale, tuttavia, può essere tutelata in un settore già molto regolato anche in presenza di una posizione prevalente se non proprio monopolistica (vedi Tim con la sua rete in rame che vorrebbe avere il 51 per cento della nuova società per la banda larga).
Da una parte e dall’altra, in pieno stile Giorgetti, il quale ama lavorare nell’ombra e dall’ombra apparire come colui che scioglie i nodi troppo intrecciati. E di nodi ne ha oltre cento, tanti sono i “tavoli di crisi”. Il primo della nuova gestione ministeriale è stato sciolto grazie alla mano pubblica. La Corneliani si è salvata con Invitalia (la società del Tesoro) che mette 10 milioni di euro e con altri 7 milioni del principale azionista che aveva acquistato il gruppo tessile nel 2016 valutandolo 100 milioni di dollari: si tratta del fondo Investcorp fondato a Londra da Nemir Kirdar, un turkmeno-iracheno naturalizzato britannico che aveva investito nel lusso (Gucci, Tiffany, Saks, Georg Jensen, Dainese). Il co-amministratore delegato, Hazem Ben-Gacem, (tunisino laureato a Harvard) ha ringraziato Giorgetti e “il generoso sostegno del Mise”. Certo, la Corneliani produce a Mantova, non a Napoli, ed è comunque una vertenza più facile della Whirlpool dove c’è di mezzo una multinazionale a stelle e strisce. Ma anche qui wait and see, aspetta e vedrai. La lettera inviata al presidente campano De Luca che esigeva spiegazioni è un’istantanea chiarissima: “Caro Vincenzo, ti informo che sto seguendo personalmente la situazione cercando di dare concretezza a una possibile soluzione. Siccome sono abituato a parlare con i fatti, ti posso assicurare che non appena ci sarà un segnale tangibile provvederò a dartene notizia e a convocare il tavolo di crisi”. Fare non dire, in piena sintonia con Draghi che lo apprezza anche per questo, oltre al passe-partout ricevuto dal Quirinale con il quale Giorgetti ha saputo costruire una consuetudine ormai consolidata: dopo le elezioni del 2013, fu nominato da Giorgio Napolitano nella commissione dei dieci saggi da cui sarebbe nato il governo di Enrico Letta; e nel 2018 è stato il garante con Sergio Mattarella dell’esperimento gialloverde, mediando con i grillini di Luigi Di Maio. Un altro punto di vantaggio rispetto al suo collega che siede nel palazzo di fronte.
Anche Orlando ha cominciato molto presto a far politica, nel 1989, a vent’anni, su tutt’altro fronte, la Federazione giovanile comunista della sua città, La Spezia. A differenza di Giorgetti, legato fin da giovane a Laura Ferrari, esperta di equitazione, con la quale ha una figlia ventenne, il ministro piddino non si è mai sposato, anche se il suo cuore è stato trafitto due volte, come ha confessato alla radio e alla televisione dove è sempre ben accolto. Il balzo sulla scena nazionale arriva con Walter Veltroni che lo nomina portavoce del partito. E’ il momento del largo ai giovani, non si chiama rottamazione (così non si sentono minacciati gli interessi costituiti), non è zuppa è pan bagnato. La politica lo ha assorbito totalmente, ha anche mollato l’università di Pisa dove studiava Giurisprudenza mantenendosi con i più diversi lavoretti. Ha seguito tutto il percorso degli ex comunisti: la Bolognina con Achille Occhetto, il Pds, i Ds, il Pd dove diventa esponente di punta dei “giovani turchi”. Unica distrazione il calcio, da tifoso (dello Spezia e della Fiorentina) e da mediano (nella nazionale parlamentari). Al governo arriva con Enrico Letta come sottosegretario all’Ambiente, con Matteo Renzi diventa addirittura Guardasigilli, anche perché in Parlamento si era occupato a lungo di giustizia rispolverando gli studi giovanili. La sua legge più importante è quella sui migranti, siglata nel 2017 insieme a Marco Minniti, allora ministro degli Interni. Fecero entrambi i San Sebastiano, trafitti dalla destra che voleva di più e dalla sinistra che voleva di meno, ma Orlando in quella occasione ha mostrato equilibrio e tenuta. Come uomo di governo ha superato l’esame, come uomo di partito, in veste di vicesegretario del Pd, è rimasto sulla tolda del Titanic pilotato da Nicola Zingaretti.
Oggi Orlando deve affrontare la prova del nove perché si trova in prima fila nel fronte più sensibile per il suo partito, quello dei sindacati. Il blocco dei licenziamenti andrà ancora avanti per mesi, poi ci sarà una uscita flessibile e lì cominceranno i guai. “Non vogliamo licenziare”, ha avvertito Maurizio Stirpe, numero due della Confindustria. Ma serve una riforma degli ammortizzatori sociali. Orlando è d’accordo, tuttavia è consapevole che per rimettere ordine ci vorrà tempo e denaro. L’uno e l’altro ancora mancano. Molte speranze sono risposte nel piano per la ripresa le cui risorse, però, saranno concretamente disponibili l’anno prossimo. Dei 458 mila posti di lavoro persi l’anno scorso ben 390 mila riguardano contratti non rinnovati. La Confindustria chiede meno vincoli superando il decreto dignità. I sindacati, con in testa la Cgil guidata da Maurizio Landini, sono contrari. Lo stesso vale per il M5s e per lo stesso Partito democratico. Navigare tra Scilla e Cariddi non sarà facile nemmeno per un ligure cresciuto in riva al mare. La preoccupazione, del resto, non riguarda solo i precari. Secondo il Censis sono 9,4 milioni i lavoratori del settore privato in ansia per il loro posto. La metà teme di vedersi ridurre il reddito, 4,5 milioni prevedono di dover lavorare più di prima, 4,4 milioni hanno paura di ritrovarsi disoccupati, 3,6 milioni di essere costretti a cambiare lavoro. Gli operai spaventati sono tre su quattro ed è naturale che i sindacati si preoccupino per loro oltre che per il proprio potere: sono nati per rappresentare sul mercato la forza lavoro, non per distruggerla. Per il Pd è una partita di vita o di morte.
Lo slittamento a destra del voto operaio non è una novità, ma se la Lega riuscisse a egemonizzarlo non solo al Nord, diventando un partito popolare e non populista, non ci sarebbe più spazio nemmeno per un partito laburista o socialdemocratico. E’ un dilemma che si pone in primo luogo al nuovo segretario Enrico Letta, ma certo Orlando è sulla linea del fuoco, incalzato anche dai Cinque stelle. Con loro deve incrociare le armi (per ora il fioretto, poi forse anche la sciabola) sulla trasformazione del reddito di cittadinanza e soprattutto sull’Inps. La gestione del mercato del lavoro è stata occupata dai pentastellati sia attraverso l’istituto presieduto da Pasquale Tridico sia attraverso l’Anpal guidata da Massimo Parisi, piovuto a Roma dal Mississippi. Entrambi non hanno dato grandi prove, ancor prima della pandemia. L’Inps ora è sottoposto a una pressione straordinaria alla quale ha fatto fronte con fatica e mostrando consistenti disservizi. Difficile che il governo Draghi non metta mano a questo snodo fondamentale, anche in vista del piano per la ripresa.
Il ministro Orlando deve dar prova di fermezza. A differenza di Giorgetti non gli basterà mediare tra gli interessi economici e quelli politici del suo partito o all’interno del governo. Le sue scelte dovranno essere chiare e nette, anche perché da esse dipende in gran parte il futuro del Pd. Quella curva di via Veneto, insomma, è davvero decisiva per il governo, per la maggioranza che lo sostiene, per i due partiti che appaiono oggi più strutturati di fronte allo tsunami politico, economico e sociale, che la pandemia ha rovesciato sulle italiche sponde.