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L'apocalisse puo' attendere

Chicco Testa e Patrizia Feletig

Il mondo non sta per finire, sta all’uomo creare modelli di sviluppo efficienti per sé e per l’ambiente, abbracciare le sequoie non funzionerà. Michael Shellenberger contro l’ecologismo terzomondista

A sostituire nella combustione il legno col carbone, il pianeta ci ha guadagnato. Sembra un’eresia, eppure la ricostruzione delle transizioni energetiche compiute negli ultimi secoli dall’umanità dimostra che il passaggio dai biocombustibili alle fonti fossili non è stato il male assoluto, anzi. Sono stati l’aumento della richiesta di trasporto, illuminazione, riscaldamento e l’accresciuta attività manifatturiera che hanno portato le fonti rinnovabili come le biomasse a cedere il passo a quelle fossili. E viceversa la disponibilità di energia ha reso possibile il progresso umano. Così come in seguito, petrolio e gas hanno soppiantato il carbone. E’ il meccanismo dell’evoluzione tecnologica. Ciò avviene non necessariamente per effetto della penuria di una risorsa, sebbene questa possa rappresentare un pungolo all’intraprendenza per la ricerca di alternative tecnologiche.

Prendete l’esempio delle balene cacciate per la carne e per il grasso. L’olio di balena era una sostanza versatile: utilizzata per trattare stoffe e cordame, per fabbricare sapone e lubrificare i macchinari e soprattutto, bruciando senza fumo e odore, era il combustibile ideale per illuminare le case e alimentare i lampioni della pubblica via. Ma è stata l’abbondanza e l’indubbia superiorità in densità energetica che hanno consacrato la supremazia del petrolio sugli altri biofuel. Salvando per altro le balene. Questa parabola sui fattori della transizione energetica che non dipende strettamente dalla scarsità di una risorsa, è condensata nella famosa frase dello sceicco Ahmed Zaki Yamani: “Così come l’età della pietra non finì perché finirono le pietre, l’età del petrolio non finirà perché finirà il petrolio”. A individuare empiricamente che cosa determina l’ascesa e il tramonto delle varie risorse naturali dell’energia primaria (legno, petrolio, carbone, gas naturale e uranio) è il lavoro di Cesare Marchetti.

Marchetti è un fisico italiano con una fascinazione verso l’avanzamento tecnologico che ha studiato sotto varie prospettive. Marchetti sviluppa un modello logistico delle fasi di crescita, saturazione e declino dei sistemi energetici. Studiando trecento casi di transizione delle fonti di energia primaria accaduti nel mondo: dal legno al carbone, dall’olio di balena al petrolio e molte altre combinazioni, il fisico evidenzia come il mercato si allontani da una fonte di energia primaria ancora prima che questa abbia raggiunto il picco, perché la migrazione è, in verità, guidata dal passaggio dai combustibili con densità energetica più diluita e maggiore componente carbonica verso quelli con maggiore densità energetica e idrogeno. Questa tendenza ha consentito che, negli ultimi 150 anni, si sia ottenuto, al netto di interventi specifici, una naturale decarbonizzazione del sistema energetico globale. Il legno è stato sostituito dal carbone che ha il doppio di quantità di energia immagazzinata per unità di volume rispetto alla biomassa. Quando il carbone, composto all’incirca da un atomo di carbonio per ogni atomo di idrogeno, viene rimpiazzato dal petrolio che ha una densità energetica superiore, si guadagna anche dal punto di vista delle emissioni: per ogni atomo di carbonio se ne contano due di idrogeno. E quando al petrolio è subentrato il metano, il rapporto è migliorato ulteriormente. Per ogni atomo di carbonio si hanno quattro atomi di idrogeno come del resto indica la formula chimica CH4. Eccoci arrivati a una conferma piuttosto controintuitiva.

Grazie a queste transizioni energetiche, tra il 1860 e la metà del 1990, a livello mondiale, l’intensità carbonica dell’energia primaria è calata del 0,3 per cento ogni anno confermando la tesi di Marchetti. Lo scienziato italiano è stato invece smentito nel suo pronostico ottimista secondo cui, nel XXI secolo, solo un residuo di società avrebbe ancora bruciato legna e altre biomasse. Invece, oltre 2,5 miliardi di persone sopravvivono ancora in questo modo. Se è la tecnologia a spingere per il cambiamento, è la politica a favorirlo o a contrastarlo. E talvolta , condizionata da un certo ideologismo catastrofista, spinge esclusivamente nella direzione opposta. Da fonti con alta densità energetica verso fonti a diluita densità energetica, sottovalutandone i costi sociali. Le energie rinnovabili sono insufficienti per un uso su larga scala. L’eolico e il solare sono insufficienti come fonte primaria di energia per le esigenze di sviluppo dei paesi poveri e causano troppi danni collaterali consumando vaste superfici di terreno. A raccontare tutto questo è Michael Shellenberger nel suo corposo saggio “Apocalypse Never. Perché l’ambientalismo allarmistico ci danneggia” appena pubblicato da Marsilio. Il libro se la prende con l’ecologismo catastrofista e autodistruttivo che l’autore paragona a un culto fasullo per anime perse in ricerca di sollievo emotivo e soddisfazione spirituale. Una religione laica per dare ai suoi adepti un senso di scopo e trascendenza. Come nella migliore tradizione delle sette religiose, questo distorto ambientalismo coltiva il fanatismo apocalittico. Lo fa con annunci tanto apodittici quanto ansiogeni “miliardi di persone stanno per morire”. Quando non è la politica a inquinare i rapporti di enti di ricerca che dovrebbero essere esclusivamente scientifici, come l’organismo sul clima delle Nazioni Unite (Iccp). O gli intrecci di interessi economici che gravitano attorno al cambiamento climatico e che si schierano ideologicamente contro nucleare e idroelettrico, due fonti pulite di alta producibilità.

Shellenberger riporta tantissime storie documentate con rigore accademico e scritte con piglio da giornalismo investigativo. Tutt’altro che negazionista, ritiene che il cambiamento climatico esista, ma sostiene un approccio pragmatico. Evangelizza un umanesimo ambientale in grado di conciliare la tutela degli ecosistemi con il benessere delle persone. Predica un processo di industrializzazione e urbanizzazione, valutando necessità e opportunità, piuttosto che l’aprioristica ideologia dello “sviluppo sostenibile”, urticante formula passe-partout che cela il neocolonialismo paternalistico dell’agenda verde occidentale. Nominato Eroe dell’Ambiente dalla rivista Time e vincitore del Green Book Award, Shellenberger smonta i miti del radicalismo green e propone una visione ecologista con al centro l’uomo e non incentrata sulla fine del mondo. All’origine della stesura del volume, uscito lo scorso giugno negli Stati Uniti, lo scatto di un padre di un’adolescente frastornata dalle narrazioni ansiolitiche. Nel corso delle 300 pagine, l’autore porta esempi che rettificano la propaganda della paura di un ambientalismo partigiano e mistificatore. Non stiamo nella sesta estinzione di massa solo perché lo 0,001 per cento delle specie del pianeta si estingue ogni anno. Per altro quelle effettivamente avvenute hanno avuto cause strettamente naturali, essendo allora la specie umana di là da venire. Ristabilisce il quadro reale. La plastica non permane per migliaia di anni nell’oceano, è rotta dalla luce del Sole e altri fattori e diventa microplastica anche se ciò non minimizza il danno ambientale ma richiede un approccio diverso. Indaga su nesso e correlazioni. Il cambiamento climatico non ha causato un aumento di frequenza o dell’intensità di inondazioni, siccità, uragani e tornado. Ogni affermazione è sostenuta da dati, fonti, storiografia, tanto da ricevere gli apprezzamenti di studiosi di fama mondiale tra cui Steven Pinker di Harvard e Kerry Emanuel climatologo del Mit. Schellenberger vanta un passato di eco-attivista da manuale. Liceale, raccoglieva fondi per salvare le foreste pluviali, poi si è mobilitato per le sequoie, il cambiamento climatico e le condizioni di vita dei contadini del Terzo Mondo. A un certo punto, dopo molti viaggi nei paesi più poveri, è scattato un assillo. “Le nazioni ricche dovrebbero fare tutto il possibile per aiutare le nazioni povere a industrializzarsi. Molti invece, stanno facendo l’opposto: cercare di rendere la povertà sopportabile anziché aiutarli a superare quella condizione”.

Per esempio, come fornire energia abbondante, pulita, conveniente, in maniera continuativa, per sostenerne lo sviluppo? Certamente non con soluzioni tanto fantasiose quanto incongruenti tipo Soccket, il generatore portatile a forma di pallone da calcio che accumula energia cinetica generata durante il rotolamento per convertirla in energia elettrica. Sviluppato a New York, è sperimentato nelle aree di povertà energetica africane: 30 minuti di palleggio alimentano una lampada Led per 3 ore. Peccato che il costo superi lo stipendio medio mensile di un africano. Che dire allora della protesta surreale di un villaggio indiano contro la micro-rete di pannelli solari e batterie impiantata da Greenpeace come presunto modello di salto energetico per i più poveri. L’elettricità era inaffidabile e costosa secondo i manifestanti che inneggiavano al grido: “Vogliamo la vera elettricità, non l’elettricità finta”.

 

“Decoupling” è per Shellenberger la parola chiave. Disaccoppiare crescita economica e consumo di risorse. Fare di più con meno. Il passe-partout , che fortunatamente è in funzione da molti secoli, si chiama innovazione tecnologica. Se si esamina il rapporto fra risorse consumate pro capite e popolazione totale il progresso è enorme. I nostri antichi progenitori sopravvissero grazie a un uso estensivo e inefficiente di ogni risorsa, a cominciare dagli ecosistemi naturali. Le nuove tecnologie basate sull’informazione dei materiali e dei processi biologici sono una cornucopia ancora ampiamente da esplorare ma enormemente promettente. Ma ci vuole ottimismo e razionalità. L’ Apocalisse può attendere.

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