Tra tabù e retorica
Cosa vuol dire essere ambientalisti oggi?
Idrogeno, carbone, gas. Le sfide che la politica deve affrontare per la nuova fase
Una volta era chiaro che cosa voleva dire essere “ambientalisti”. L’ambientalista era colui che, per definizione, si preoccupava prima dell’ambiente e poi del resto in controtendenza con il resto del mondo. Poi è iniziata la lenta marcia d’avvicinamento e infine l’ambientalismo ha vinto. Non solo la politica, ma le imprese, la finanza, tutti gli organi di informazione, il Papa, tutti a considerare l’obbiettivo della decarbonizzazione non solo essenziale per la sopravvivenza della specie e per la salvezza del pianeta, ma anche come leva per generare un bel mondo nuovo. Che in tutto questo ci sia una bella dose di retorica (sostenibilità sta per entrare nel novero delle parole insopportabili, come resilienza), una certa quota di credulità antiscientifica (il pianeta campa e camperà a prescindere), ed una discreta percentuale di greenwashing (la borsa americana ha istituito una taskforce per smascherare le imprese che bluffano) poco importa.
La corrente è travolgente e mobilita soprattutto ingenti risorse. Pubbliche e private. Che forse non cambieranno il mondo e non renderanno gli uomini più buoni ma sono destinati a modificare gli assetti produttivi e a determinare conseguenze politiche nazionali e internazionali profonde. Da una parte la corsa a tutte quelle tecnologie in grado di portare miglioramenti, dall’altra la competizione fra le aree geopolitiche fondamentali, Europa, USA, Cina, ma anche per esempio Arabia Saudita, per accreditare il proprio impegno e trarne tutti i benefici possibili nei mercati e nelle competizioni internazionali. Il che apre però una serie di quesiti cui occorre rispondere con grande oculatezza. Perché paradossalmente la vittoria ha reso evidente un cosa. Vale a dire che non esiste una ricetta unica e ben confezionata per affrontare la questione. Intanto che cosa vuol dire essere ambientalisti al giorno d’oggi quando tutti i maggiori leader mondiali, con rarissime eccezioni, dichiarano di esserlo?
Gli stessi ambientalisti d’antan sono un po’ spiazzati venendo meno il vantaggio competitivo di dichiararsi tali. Una parte reagisce in un modo noto, che, per esempio, ha contraddistinto tanta storia della sinistra. Alzando la posta. I “veri” ambientalisti vogliono sempre di più. Si è deciso di eliminare il carbone come fonte per la produzione energia? Non basta, bisogna eliminare anche il gas. È stato stabilito di arrivare almeno al 50% di produzione elettrica con e fonti rinnovabili? E no, bisogna alzare l’asticella al 60% e molto prima. L’idrogeno fa il suo ingresso fra le soluzioni? Benissimo, purché sia tutto verde e non tocchi nemmeno lontanamente gli odiati combustibili fossili. Come ha ben sottolineato il direttore di questo giornale del suo articolo di lunedì 29/3 a questo punto si apre la questione dei tanti ambientalismi possibili, dei tanti modi per cucinare la stessa pietanza. Un evidente esempio di questo è stato il passaggio del ministero dell’Ambiente, divenuto nel frattempo ministero della Transizione, da Sergio Costa a Roberto Cingolani. Dall’orso del Trentino, una delle principali preoccupazioni di Costa, alle nanotecnologie. Una distanza lunare. Ma che il tutto non sia un pranzo di gala lo si vede per esempio dalle enormi difficoltà nell’implementare il programma energetico nazionale che pure è condiviso da praticamente tutte forze politiche, basato su una consistente quota aggiuntiva di fonti rinnovabili. Che non si riescono a fare. Non perché manchino i progetti o i finanziamenti privati, ma per l’opposizione che essi trovano prima di tutto nelle comunità locali e da pezzi interi degli apparati statali a cominciare dalla Sovrintendenze, ma anche da alcune associazioni ambientaliste.
Problema che non si può esorcizzare con un’alzata di sopracciglia e che dimostra che non è mai possibile distinguere per questi e per altri casi fra bianco e nero in maniera netta e inequivoca. Atteggiamenti fra l’altro, quelli contrari, frutto di decenni di contestazioni locali animati dalle stesse associazioni e che oggi estendono i loro effetti nocivi ad ogni categoria di nuovi insediamenti. E con cui le stesse associazioni continuano a civettare quando rivolti contro impianti che secondo una certa e discutibile ortodossia non risultino “environmentaly correct”. L’èra dell’innocenza è finita. Le risorse vanno investite oggi per produrre risultati domani e non dopodomani. I no-vax sono finiti in un giorno quando si è capito che solo i vaccini e la capacità scientifica e tecnologica di produrli ci avrebbe salvati. L’ambientalismo del no corre il rischio della stessa fine se non saprà mettersi in sintonia con questa nuova fase. Da cui ci si aspetta non inutili ulteriori sacrifici ma una stagione di crescita e di innovazione. E anche un po’ di benessere.
tra debito e crescita