Le nuove statistiche Istat fanno emergere i disoccupati che non vedevamo
Una piccola novità metodologica dell’Istituto di statistica. Forse sarebbe stato meglio rinviarne l'applicazione a dopo la pandemia
I dati mensili pubblicati dall’Istat sullo stato del mercato del lavoro sono sempre scrutati con grande attenzione dalla politica e dai media. Per questo motivo è importante sottolineare un cambiamento metodologico che in tempi normali sarebbe passato inosservato, ma in un periodo come quello che stiamo vivendo ha un impatto diretto e molto significativo su tutti i dati del mercato del lavoro e quindi sulla “narrativa” della crisi. Di cosa stiamo parlando? A partire da gennaio 2021, i lavoratori dipendenti in cassa integrazione (Cig) da oltre tre mesi e i lavoratori autonomi senza attività da oltre tre mesi non sono più considerati come occupati dall’Istat, ma come inattivi (a meno che stiano cercando attivamente lavoro e in quel caso sono considerati “disoccupati”). Inoltre (ma questo gioca un ruolo minore), i lavoratori in congedo parentale sono sempre considerati come occupati anche se a casa da oltre tre mesi e con un taglio della retribuzione del 50 per cento.
Questa modifiche metodologiche, stabilite da un regolamento Eurostat approvato nel 2019, hanno implicazioni molto concrete in un paese in cui la Cig e il lavoro autonomo giocano un ruolo molto importante. In particolare, la nuova definizione ha il merito di far “emergere” coloro che pensavamo occupati e invece sono senza lavoro da parecchi mesi. Ma comporta anche una variazione radicale dei numeri che abbiamo usato finora con il rischio di confondere un po’ le acque per chi legge e usa questi dati.Se guardiamo al 2020, con la vecchia definizione tra febbraio e dicembre 2020 erano 425mila le persone ad aver perso il lavoro. Con la nuova definizione, questo numero sale a 767mila!
Ma anche il trend è diverso: con la vecchia definizione la situazione, dopo lo shock iniziale di marzo e aprile, era più o meno stabile da maggio, con la nuova definizione si osserva un nuovo netto peggioramento dall’autunno in poi (dovuto alla persistenza della crisi). Con la vecchia definizione, il numero di occupati con contratto a tempo indeterminato era persino aumentato (visto che sono coperti dal divieto di licenziamento e dalla Cig Covid). Con la nuova definizione, invece, anche il numero di occupati a tempo indeterminato scende (appunto perché alcuni sono in Cig da oltre tre mesi). Il grosso del calo comunque resta concentrato sui lavoratori temporanei e autonomi. Con la vecchia definizione a pagare la crisi erano per due terzi donne, con i nuovi dati il calo, invece, è diviso praticamente a metà tra uomini e donne. Con la vecchia definizione, gli over 50 avevano visto un aumento dell’occupazione. Con i nuovi, invece, nessun aumento (ma nemmeno un calo). Resta che sono soprattutto i giovani a pagare la crisi.
In conclusione, un “piccolo” cambio metodologico dalle conseguenze notevoli per i dati e quindi la comprensione dello stato del mercato del lavoro. Oggi i giornali parlano di un milione di posti di lavoro persi dall’inizio della pandemia mentre fino a gennaio si parlava di mezzo milione. Per le persone e le imprese non è cambiato niente: i cassaintegrati restano cassaintegrati, i disoccupati pure. Ma per chi deve monitorare il mercato del lavoro e adattare le politiche si tratta di un piccolo grattacapo. E per il grande pubblico questi numeri così variabili rischiano di confortare quelli che pensano che esistano “le bugie, le sfacciate bugie e le statistiche” (come dice una frase erroneamente attribuita a volte a Churchill a volte a Disraeli).
L’Istat che in questa crisi si è distinto per puntualità, precisione e anche qualche innovazione è tra i pochi uffici di statistica nazionale in Europa ad aver ricostruito l’intera serie permettendo, per lo meno, di mantenere la comparabilità nel tempo e documentare l’importanza della modifica. Tuttavia, sarebbe stato forse più prudente a livello europeo rinviare l’attuazione della decisione, che ha le sue ragioni e i suoi meriti, a un periodo più “normale”. Ormai ciò che è fatto è fatto e non resta che invitare alla prudenza chi maneggia e comunica questi dati.