(Ansa)

Coinvolgere il privato per rilanciare le politiche attive post Covid

Andrea Garnero e Raffaella Sadun

Perché la ripresa del mondo del lavoro passa da una sinergia strutturale tra pubblico e privato, anche e soprattutto attraverso i partenariati, forme di collaborazione già sperimentate con successo in altre realtà europee

 

Secondo l’ultimo numero del settimanale britannico The Economist, per il mondo del lavoro dei paesi sviluppati si profila un radioso futuro. “L’ottimismo è il profumo della vita”, ma forse l’Economist  ha esagerato un po’. Sicuramente per il caso italiano sono maggiori le fonti di preoccupazione che quelle di ottimismo. Anche in caso di una ripresa poderosa, l’Italia si trova di fronte a una sfida che non ha mai vissuto prima: quasi un milione di persone che hanno perso il lavoro in un anno secondo il nuovo calcolo dell’Istat, altri 100 mila a rischio con la fine del blocco dei licenziamenti secondo le stime dell’Ufficio parlamentare di Bilancio e oltre un milione ancora in cassa integrazione.

Per quanto sembri ovvio, la maggior parte dei posti che sono scomparsi non torneranno e quindi per tornare alla situazione pre Covid-19 serviranno nuovi posti di lavoro e nuove imprese. Ma la transizione a questi nuovi posti di lavoro non sarà indolore: ci sono vecchie competenze da affinare, nuove da imparare e Cv e lettere di motivazione da riscrivere. Ancora più difficile se il sistema delle politiche attive, cioè proprio quei servizi per aiutare un lavoratore a ritrovare un impiego, sconta un ritardo pluridecennale e, a oggi, infrastrutture digitali assenti o lacunose.

 

 
Il ritardo del settore pubblico


La spesa per le politiche attive del mercato del lavoro (0,51 per cento del pil) è vicina alla media Ocse (0,53 per cento del pil), ma ben al di sotto della media dei paesi dell’Unione europea (0,68 per cento del pil) e di paesi con tassi di disoccupazione simili. Inoltre, le risorse per le politiche attive del mercato del lavoro si concentrano su incentivi all’occupazione e non su programmi più efficaci come l’orientamento e la formazione dedicata a gruppi di disoccupati più svantaggiati. Solo il 2 per cento del budget è speso in servizi che si sono dimostrati più efficienti in termini di costi a livello internazionale, come l’intermediazione di lavoro (job mediation), l’inserimento lavorativo (job placement) e i servizi correlati.

 

Inoltre, i servizi pubblici per l’impiego svolgono un ruolo ancora molto limitato. Solo la metà circa dei disoccupati in Italia è registrata presso un centro per l’impiego e solo la metà di essi utilizza questi servizi per cercare lavoro. Anche l’accesso e la qualità dei servizi per l’impiego varia notevolmente tra le regioni del paese. Il governo Draghi si è dichiarato a più riprese intenzionato a prendere il toro per le corna, ma anche nella migliore delle ipotesi ci vorrà almeno un anno o due perché gli effetti si possano toccare con mano sui territori. Assumere e formare il personale dei centri per l’impiego e costruire le reti necessarie con imprese, Its, università, Fondi interprofessionali, agenzie per il lavoro, enti locali non si fa dall’oggi al domani. Ma chi cerca un lavoro oggi non può attendere.

 

 
Per un Partenariato pubblico-privato

Per questo motivo, mentre continuano gli sforzi per portare i servizi pubblici per l’impiego a standard europei, è necessario coinvolgere in maniera strutturale anche i servizi privati che hanno competenze ed esperienza nel campo. Coinvolgere i privati non significa dar loro una delega in bianco ed esternalizzare tutto ma costruire Partenariati pubblico-privati (Ppp) che concilino gli interessi puramente economici del privato con quelli del pubblico che in questo caso sono, innanzitutto, rispondere efficacemente al numero crescente di richieste e, poi, favorire un trasferimento di competenze (incluse competenze tecnologiche, che giocheranno un ruolo sempre più importante nell’implementazione delle politiche attive) dal privato al pubblico per recuperare il ritardo accumulato.

 

Sono numerosi gli esempi di Ppp in materia di politiche attive anche in paesi dove la mano dello stato resta importante, dalla Francia al Belgio o alla Germania. In Italia forme di Ppp sono già state sperimentate, non si deve partire da zero: l’esempio più famoso è sicuramente quello della Dote Unica Lavoro in Lombardia, poi sviluppata a livello nazionale con l’assegno di ricollocazione, che dal 2017 permette a chi cerca lavoro di ottenere un servizio di assistenza dedicato e scegliendo autonomamente il fornitore di questo servizio. Tuttavia, al di là della Lombardia e poche altre regioni, il ruolo del privato resta estremamente limitato. Lo stesso assegno di ricollocazione, anche a causa di norme che negli anni più recenti ne hanno ristretto l’uso e della limitata disponibilità di enti accreditati, non è ancora decollato. In generale rimane una ritrosia culturale a coinvolgere il privato nei servizi pubblici. Eppure, in questo caso, l’alternativa è continuare ad accettare che un disoccupato in alcune regioni abbia opportunità e prospettive che un disoccupato in molte altre regioni non ha, in un momento di estrema crisi. 

 

 

L’assegno di ricollocazione è lo strumento più semplice per allargare l’offerta di servizi e favorire una sana competizione e cultura del risultato che riconosca al centro per l’impiego pubblico o all’agenzia del lavoro privata un compenso rispetto al lavoro fatto ma anche rispetto al risultato raggiunto (magari anche premiando maggiormente la collocazione in contratti a maggiore durata). Al pubblico, però, tocca garantire che le banche dati e i sistemi si parlino. Non serve necessariamente una nuova app al sistema di politiche attive italiano, ma sicuramente serve mettere in rete i dati e gli strumenti che già esistono (per esempio, per fare in modo che vi sia un collegamento fra le politiche attive e quelle passive).

 

 


 Perché bisogna agire adesso

In una situazione di tale ritardo e urgenza come quella in cui ci troviamo, è possibile pensare anche a qualcosa di più dell’assegno di ricollocazione. Partenariati pubblico-privati possono essere sviluppati anche per consentire un affiancamento dei centri pubblici per l’impiego da parte del privato. Tra i primi ad avere bisogno di formazione, infatti, sono molti operatori dei centri per l’impiego che sono in maggioranza over 50 e senza una laurea (non è il titolo in sé che conta ma la stessa Anpal considera che la mancanza di competenze sia un problema nel 35 per cento dei centri per l’impiego).

 

 

Allo stesso tempo, all’interno del settore pubblico esistono punte di competenza e di motivazione necessarie per aiutare i soggetti più svantaggiati e lontani dal mondo del lavoro. Affiancare il personale delle agenzie del lavoro a quello dei centri pubblici per l’impiego permetterebbe di realizzare sinergie fra soggetti con competenze diverse che al momento sono del tutto ignorate. Le idee e gli esperimenti non mancano. Ma, innanzitutto, serve riconoscere che anche la più riuscita delle riforme non arriverà mai in tempo per le urgenze determinate dalla crisi Covid-19 e che il coinvolgimento del privato nell’erogazione di un servizio pubblico oltre a non essere un tabù è un’opportunità di apprendimento e arricchimento per il pubblico.