Tra prospettive e illusioni
Tutti a casa. Si chiude l'epoca delle delocalizzazioni
La nuova politica richiede una produzione industriale a chilometro zero. Ma non è sovranismo
Chi ha risciacquato i panni nel Tamigi lo chiama reshoring, un termine che evoca le amate sponde. Noi che dalle rive del Tevere abbiamo bazzicato Cinecittà, preferiamo l’espressione tutti a casa. È il complesso di Itaca direbbe un letterato infarinato di psicoanalisi; è la fine del sogno cosmopolita; è la rinascita della patria, piccola o grande che sia, gongola Ernesto Galli della Loggia; è la volontà di potenza che vince sul libero scambio, insomma si possono ricamare infinite trame. Di che si tratta? Prosaicamente reshoring indica il ritorno al proprio paese d’origine di un’attività economica spostata all’estero, quella che gli economisti definiscono delocalizzazione. Non è un fenomeno solo italiano, al contrario l’Italia non fa che seguire l’onda partita, ancora una volta, dagli Stati Uniti. Donald Trump ne ha dato una immagine provocatoria e caricaturale con la sua America First, tuttavia anche lui non faceva che cavalcare la tigre o forse sarebbe più opportuno dire che seguiva il passo del gambero perché comunque lo si voglia giudicare rappresenta un ritorno indietro e, se spinto troppo in là, diventa pericoloso per tutti, a cominciare da chi l’ha cominciato.
Non siamo i soli né tanto meno i primi, dunque, anche se come tutti i neofiti, stiamo andando molto in fretta. Uno studio relativo al biennio 2016-2017 vede in testa l’America con circa 326 casi aziendali, seguita dall’Italia che ne conta 121, poi Regno Unito con 68 e Germania con 63. I vaccini facciamoli in casa proclama il presidente dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini, Pd matrice rossa; “è quanto di più strategico”, rilancia Giovanni Tria. E perché non gli autobus e i camion, c’è l’Iveco, teniamocela, insiste Giancarlo Giorgetti, ministro dello Sviluppo economico, Lega matrice lombarda. E l’acciaio? Abbiamo il più grande centro siderurgico europeo, adesso ci pensa Franco Bernabè. Non parliamo dei chips, materiale di primaria importanza strategica, siamo pazzi a darli ai cinesi. E allora fermi tutti, l’azienda lombarda Lpe (che realizza componenti essenziali nella produzione di microprocessori) non andrà a Pechino anche se la metà dei suoi ricavi proviene proprio dal Celeste Impero. E golden power sia pure per le autostrade contro “gli appetiti spagnoli” di don Florentino Pérez. Quanto al trasporto aereo, l’Alitalia da sola non può volare, ma che senso ha far divorare la “gloriosa compagnia di bandiera” da una concorrente straniera?
E continuiamo così, via via proteggendo: le batterie, le cellule fotovoltaiche, le lavatrici, le fibre tecniche, la lana, il cotone, le magliette, le scarpe. Proprio la filiera della moda è stata tra le prime a imboccare la via del ritorno. In Italia negli anni che precedono la pandemia i casi di aziende che hanno scelto di riportare la produzione in patria, si suddividono tra l’abbigliamento (41 per cento), l’elettronica (25 per cento) e la meccanica (16 per cento); con rilevanti differenze geografiche a favore del nord-est. Benetton ha ripreso la strada di Treviso nel 2016 collocando nel comune di Castrette il lancio di un nuovo maglione chiamato Treviso 31100. Gta Moda nata nei pressi di Padova, è una delle più note produttrici di pantaloni per uomo e ha voluto rientrare in Veneto traslocando parte della produzione dalla Romania. Falconeri, un marchio incluso nel gruppo Caldezonia, che offre maglieria in cachemire, ha deciso di aprire un nuovo stabilimento ad Avio (Trento), lasciando parte della produzione effettuata in Romania ed investendo in una nuova linea interamente italiana. Artsana che comprende Chicco, Prenatal, Pic, Lycia e Control, ha ricominciato a lavorare parzialmente in Italia lasciando India e Cina. Diadora, fa parte della Geox di Moretti Polegato, intende rimpatriare almeno il 10 per cento della produzione. Wayel, bici elettriche, ha aperto un nuovo stabilimento a Bologna. La Snaidero, cucine compatibili, ha riportato l’intera produzione in Friuli, nello stabilimento di Majano, a Udine. Fastweb ha spostato il call center dalla Romania in Puglia. Vimec azienda che fabbrica ascensori per la casa aveva trasferito in Cina buona parte della manifattura riducendo i costi di produzione. Senonché negli ultimi dieci anni ha visto lievitare i salari, il cambio è diventato sfavorevole e ha sperimentato un calo di valore per aver abbandonato il made in Italy. Così i montascale si fanno a Luzzana in Emilia Romagna. A partire dalla vittoria di Trump, le acuite tensioni tra Stati Uniti e Cina e il neoprotezionismo verso la stessa Europa hanno avuto un’influenza nient’affatto secondaria. I cinesi esportavano il 70 per cento dei loro prodotti di abbigliamento nel 2005, ebbene nel 2018 questa quota era già scesa al 29 per cento. Per citare alcuni esempi americani, ricordiamo che la Motorola Mobility, quella che fa i telefonini, ha assunto duemila lavoratori a Fort Worth nel Texas; la Apple ha investito 100 milioni di dollari per un Mac assemblato sempre in Texas (paradiso fiscale per le imprese) con componenti e apparecchiature provenienti da Florida, Kentucky, Illinois e Michigan; persino la cinese Lenovo che aveva assorbito i personal computer della Ibm ha creato un impianto in North Carolina per costruire ThinkPad. Quanto alla FCA ha deciso di aprire un nuovo stabilimento a Detroit per la prima volta in 27 anni, tra gli applausi di Trump e dei sindacati a stelle e strisce.
Tutto ciò non rischia di diventare un boomerang, una operazione masochistica per seguire la risacca ideologica o per sottostare a diktat politici? Perché il ciclo riprenderà, il gioco degli scambi non si ferma e chi si è chiuso a riccio difficilmente potrà tornare lepre. Prendiamo proprio la moda, come può reggere se non rimane integrata nella macchina mondiale? L’ultimo esempio viene dal campione della società opulenta, il colosso francese Lvmh ha aumentato le vendite del 30 per cento nel primo trimestre dell’anno, con un balzo del 52 per cento nel comparto moda e pellami. È vero, Bernard Arnault guida una corazzata con le stive piene di capitali; i suoi marchi vivono di vita propria, ma si reggono l’uno con l’altro puntellati dalle banche, secondo una logica da tempo sperimentata dai Konzern tedeschi e dai Keiretsu giapponesi che hanno ispirato i chaebol coreani e l’intero modello asiatico. Da soli si può arrivare fino a un certo punto, ma poi anche un incallito scapolone ha bisogno di un partner. Lo ha capito Giorgio Armani, il più orgoglioso dei campioni solitari. Chi è abbastanza forte può scegliere il socio, però deve fare il grande passo. Allearsi per crescere è una reazione fisiologica, tornare a casa è una pericolosa illusione tanto più per l’Italia che vive e ha continuato a sopravvivere anche durante la pandemia grazie alle esportazioni e ha prosperato nella storia fabbricando all’ombra dei campanili cose belle che piacciono al mondo.
Paese povero di risorse minerarie, prevalentemente montuoso, con poche grandi pianure coltivabili, l’Italia ha puntato sempre sulla capacità di combinare al meglio fattori della produzione molti dei quali provengono per forza di cose dall’esterno, portando poi oltre confine i frutti del lavoro, dall’artigianato all’industria senza dimenticare la finanza. Non solo, nell’ultimo mezzo secolo si è creata una integrazione economica sempre più stretta tra i principali paesi industriali europei Francia, Germania e Italia. In particolare l’asse economico italo-tedesco ha assunto la caratteristica di una vera filiera produttiva; basti pensare alla componentistica e soprattutto, ma non solo, quella automobilistica. I fautori del reshoring non propugnano l’autarchia, ma si dividono in nazionalisti duri e puri e in europeisti; questi ultimi pensano che le difese vadano costruite attorno alla casa comune, cioè la Ue. È molto di moda nel dibattito politico-intellettuale l’idea che il commercio mondiale oggi può sopravvivere solo se si articola su una dimensione quanto meno regionale (intendendo l’Europa come una macro regione economica). Anni fa Mario Deaglio ha parlato di “globalizzazione a placche” con una metafora presa dalla tettonica. Non è chiaro in che modo ciò non porti prima o poi a un conflitto tra aree economiche sostanzialmente chiuse in se stesse, alla ricerca ciascuna del predominio sulle altre. In fondo è quel che sta accadendo con lo scontro tra Stati Uniti e Cina già chiamato nuova Guerra fredda. Lo abbiamo visto con il braccio di ferro sul 5G e il ruolo della Huawei. E ora siamo in mezzo alla guerra dei chip.
Mentre gli Stati Uniti mantengono un primato indiscusso nel disegno dei microprocessori, la loro capacità produttiva è caduta verticalmente. La superpotenza tecnologica è diventata dipendente per componenti fondamentali dall’Asia e soprattutto dalla Cina che ne approfitta brandendo i chip come arma di un ricatto più vasto. Le conseguenze sono già pesanti soprattutto nell’industria dell’auto e non solo in America (anche gli stabilimenti italiani della Fca sono stati colpiti) proprio quando sta cominciando la ripresa post-pandemica. Tornare indietro non sarà facile, il tutti a casa potrebbe funzionare, secondo un racconto del McKinsey Global Institute, se negli Stati Uniti aumenta in modo massiccio la domanda per componenti fabbricate sul territorio nordamericano, ciò sarebbe possibile solo nel momento in cui il governo garantisse non solo gli investimenti, ma le forniture come accadde per i semiconduttori negli anni ’50 e ’60. E così Mariana Mazzucato consumerebbe la propria rivincita. L’ultimo caso in territorio italiano (ma con numerose ricadute europee) coinvolge l’azienda lombarda Lpe il cui 70 per cento era stato acquistato dalla cinese Shenzhen Investment. Il decreto varato il 31 marzo scorso, che blocca la cessione, è il primo provvedimento siglato congiuntamente da Mario Draghi e Giancarlo Giorgetti: due firme sotto il Dpcm, due mani, un unico obiettivo. Il provvedimento fa esplicito riferimento alla scelta europea di sviluppare la produzione di microprocessori e diventare competitiva in un settore chiave per la rivoluzione digitale. La Lpe ha solo 52 dipendenti e ha fatturato nel 2019 27 milioni di euro, ma possiede una filiale in Cina (dove è sbarcata fin dagli anni ’80) e partecipazioni in imprese svedesi e olandesi; i suoi reattori epitassiali, microstrutture composte da lamelline di silicio, servono per i circuiti integrati e, di conseguenza, possono avere un uso sia civile sia militare. Il governo così ha fatto ricorso al potere di veto varato con un decreto nel 2012 e utilizzato solo un’altra volta per la francese Altran che opera nel campo della Difesa. Adesso il golden power assume il senso di un vero “scudo anticinese” ha scritto Il Sole 24 Ore.
Ecco il salto verso la dimensione geopolitica; e potrebbe diventare un doppio salto mortale se il fossato che la nuova Guerra fredda ha aperto tra Stati Uniti, Cina, Europa e Russia si facesse invalicabile. Una nuova distensione è di là da venire nonostante le speranze riposte nella nuova amministrazione. Tutto quello che Joe Biden può ottenere è una rivincita della diplomazia per preparare un futuro disgelo, ma prevale il pessimismo della ragione perché nemmeno la pandemia ha innestato un cambio di marcia; al contrario, la corsa ai vaccini ha assunto molti aspetti di una corsa agli armamenti. Rimpiangeremo il ventennio della globalizzazione e leveranno alti lai persino i critici da sinistra, quando vedranno i paesi in via di sviluppo che più hanno beneficiato del libero commercio sprofondare di nuovo verso il terzo o quarto mondo. C’è il rischio che accada prima del previsto se, come ha denunciato il Fondo monetario internazionale, i vaccini non arrivano. Eppure, analizzando il ritorno a casa con mente aperta e spirito non partigiano, si scopre che non siamo davanti a una restaurazione, almeno non soltanto. La fragilità della catena produttiva mondiale impone la creazione di cuscinetti locali, tornano fondamentali le scorte di magazzino per ragioni strategiche, dal petrolio alla medicina passando per l’intera manifattura: dal just in time al just in case, è lo slogan di moda. Ma far fronte all’emergenza è solo una delle molte cause del cambiamento.
Secondo gli esperti della A.T. Kearney, tra le prime società di consulenza al mondo, il reshoring è favorito dalla rivoluzione digitale. Le aziende che vogliono raggiungere i più alti livelli tecnologici non hanno bisogno di una manodopera a basso costo specializzata in singole operazioni (elementi essenziali delle precedenti catene di montaggio), ma cercano personale qualificato e competente. L’industria 4.0, insomma, trasforma il modello di produzione, definisce nuove figure essenziali per le imprese e presenta la necessità di insediarsi in luoghi e modi diversi dal passato. I paesi avanzati che hanno mantenuto un’ampia base manifatturiera, come America, Giappone, Germania e Italia, hanno chance importanti se sono in grado di sfruttarle. Si tratta di riportare in casa le produzioni a più alto valore aggiunto, puntando sulla qualità e non sulla quantità, ma continuando a lavorare per il mondo intero. Protezionismo, rivincita patriottica, colbertismo all’italiana, nazionalismo di ritorno, rigurgito autarchico? Piano con gli insulti, ancora una volta ci sono più cose in cielo e in terra di quante ne comprenda la nostra filosofia.