Stime un po' così

Le previsioni dell'impatto del Recovery si basano su scenari molto ottimistici. Forse troppo

Luciano Capone

Le stime del governo sono legate a svolte della Pa senza precedenti nella storia

Nella premessa al Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) anticipata ieri (venerdì) dal Foglio, Mario Draghi scrive che il governo stima un “impatto significativo” degli investimenti: “Nel 2026, l’anno di conclusione del Piano – scrive Draghi –.  il prodotto interno lordo sarà di almeno 3,6 per cento più alto rispetto all’andamento tendenziale e l’occupazione di quasi 3 punti percentuali”. La previsione del presidente del Consiglio, presentata con una certa assertività, è più un auspicio che una certezza. Perché, oltre a tutte le variabili imponderabili da qui al 2026, si basa su un’assunzione importante ma tutt’altro che scontata: “Si è ipotizzato che gli investimenti pubblici associati al Piano siano quelli ad alta efficienza”. 

 
Questa ipotesi implica un cambiamento rispetto a come funziona la Pubblica amministrazione e alla storia degli investimenti pubblici in Italia. Il documento del governo, infatti, nella valutazione dell’impatto macroeconomico del Pnrr indica due scenari alternativi rispetto a quello ad “alta efficienza”: uno “medio”, in cui vengono finanziati investimenti pubblici tradizionali, e cioè con un impatto appunto medio; e uno “basso” che prevede che investimenti pubblici abbiano una ricaduta minore in termini di crescita del pil potenziale. Gli effetti sulla crescita economica, in base ai tre scenari, sono molto diversi.

 

 

Se nei primi anni l’impatto degli investimenti pubblici è molto simile, perché nel breve periodo gli effetti degli investimenti dipendono principalmente dal loro impatto tramite la domanda aggregata, con il passare degli anni i percorsi iniziano a divaricarsi. Secondo lo scenario “alto”, come dice appunto Draghi, nel 2026 il pil risulterà più alto del 3,6 per cento per due tipi di effetti dagli investimenti: da un lato quelli di breve termine sulla domanda per la messa in opera, dall’altro nel medio termine per l’impatto strutturale sulla crescita potenziale ed effettiva. Questo, dicevamo, se gli investimenti sono ad alta efficienza. Ma nello scenario “medio”, dove questa efficienza degli investimenti è inferiore, la crescita del pil prodotta dal Pnrr nel 2026 è del 2,7 per cento, circa un punto percentuale in meno. E secondo lo scenario “basso”, il pil nel 2026 risulterà più alto solo dell’1,8 per cento. In pratica, scegliere gli investimenti sbagliati o realizzarli in ritardo ha come effetto quello di dimezzare l’impatto dei 182,7 miliardi di risorse aggiuntive mobilitate dal Pnrr.


 E per quanto tutti ci auguriamo l’impatto maggiore possibile, questo non accadrà automaticamente. Perché lo scenario peggiore non è del tutto irrealistico, anzi. Secondo la descrizione che ne dà il governo nel Pnnr nello scenario “basso” ricadono “le opere che comportano una dispersione improduttiva delle risorse destinate agli investimenti”. Qualcosa che si verifica quando “vi sono errori nella selezione, progettazione e messa in opera degli investimenti” e pertanto, a un aumento iniziale della domanda “non corrispondono significativi effetti di lungo periodo sulla crescita potenziale del prodotto”. E’ il caso di tutti “gli investimenti che subiscono forti ritardi nella loro realizzazione: progetti validi diventano obsoleti per via del ritardo nella loro implementazione”. Purtroppo, in Italia questi tipi di situazioni sono più la norma che l’eccezione. Ecco perché, oltre a scegliere bene gli investimenti, servono riforme per  concludere le opere in tempi rapidi.  E’ questo un pezzo fondamentale per il successo di un’occasione storica come il Recovery plan.

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali