Unicredit tra Draghi e Orcel
L’amministratore delegato è cauto sulle fusioni. Le alternative per competere con Intesa
"Le fusioni non possono essere il fine ultimo per una banca, ma un acceleratore delle sue strategie di crescita". L’amministratore delegato di Unicredit, Andrea Orcel, ha esposto ieri, durante una call con gli investitori, il suo punto di vista sulle aggregazioni bancarie, dimostrando così di avere consapevolezza della critica che spesso affiora su questo tema e cioè che non sempre le operazioni realizzate in Italia hanno creato valore. Orcel non intende ripetere quelle esperienze se vanno a scapito della profittabilità, ma potrebbe prendere in considerazione le ipotesi che gli consentono di aumentare le dimensioni dell’istituto di Gae Aulenti e allo stesso tempo di far crescere il livello di remunerazione degli azionisti. Queste considerazioni sono molto rilevanti perché avvengono proprio quando il governo Draghi ha deciso di allungare il periodo entro cui si possono utilizzare gli incentivi fiscali per favorire le fusioni tra banche.
In pratica, come è emerso dalla bozza del nuovo decreto Sostegni, la trasformazione delle tasse differite (Dta) in crediti d’imposta sarebbe stata estesa di sei mesi, fino al 30 giugno 2022, proprio per dare più tempo agli operatori di organizzarsi. Secondo un’opinione diffusa tra gli analisti, i maggiori beneficiari di questo slittamento sarebbero proprio Unicredit, Mps e Banco Bpm e cioè le banche che sono al centro delle grandi manovre di consolidamento. Inoltre, Palazzo Chigi sarebbe disponibile a un ulteriore sforzo finanziario per incentivare i potenziali acquirenti di Montepaschi aumentandone la dote fiscale da 2 a 3 miliardi. Che cosa intende fare Orcel di fronte a questo? L’amministratore delegato di Unicredit è ormai pienamente operativo e potrebbe dirsi forte dell’inversione a U avvenuta nei conti della banca, che nel primo trimestre di quest’anno ha registrato utili pari a 887 milioni di euro, più del doppio delle attese degli analisti, dopo un 2020 archiviato con gravi perdite. Ma Orcel si mostra cauto e in questo sembra assomigliare ogni giorno di più al suo predecessore, Jean Pierre Mustier, che oppose il grande “no” al governo Conte sulle nozze con Mps. Le ragioni di questa linea difensiva potrebbero essere due. La prima è che, come lui stesso ha detto, occorre tempo per “rilanciare il business” e rimettere la banca su un sentiero di “crescita disciplinata”.
Unicredit può contare su una indubbia solidità patrimoniale, ma più di un analista, per esempio, sottolinea che il ritorno ai profitti del primo trimestre potrebbe non durare a lungo perché è il frutto di due elementi temporanei: la pulizia di bilancio fatta da Mustier prima di andarsene con abbondanti svalutazioni dei crediti e l’aumento dei proventi da operazioni di trading. Insomma, gli utili generati nella prima parte dell’anno hanno poco a che fare con l’attività core della banca. E lo stesso amministratore delegato ammette la fragilità di questo risultato quando dice di aver bisogno di tempo “per garantire che i cambiamenti che abbiamo in mente vengano apportati”. La seconda ragione della cautela di Orcel nei confronti delle fusioni è di tipo strategico. Unicredit, non è un mistero, vorrebbe accorciare il divario che si è creato con Intesa Sanpaolo dopo l’acquisizione di Ubi. Intesa oggi è di gran lunga la principale banca italiana ma, soprattutto, ha consolidato la sua presenza a nord, la zona più ricca del paese dove la gestione della ricchezza privata contribuisce ad assicurare margini di redditività in periodi di bassi tassi di interesse. Lanciare il guanto di sfida sullo stesso terreno vorrebbe dire per Unicredit preferire a Montepaschi un matrimonio, per esempio, con Banco Bpm.
Se Unicredit facesse questa mossa otterrebbe un vantaggio fiscale complessivo addirittura superiore (3,6 miliardi rispetto a 3,4 miliardi di un deal con Siena, secondo una recente simulazione di Equita). Orcel così deve scegliere – e di tempo non è che alla fine ce ne sia tanto – tra la tentazione del “nord” e quella di dire sì a Draghi. Anche se l’una strada non esclude l’altra.