Dal green al digitale
Le aspirazioni tradite sul Next Generation EU
I Paesi Ue vanno in ordine sparso sul piano per la ripresa dell'Europa. In questo modo gli obiettivi sono lontani
L’invio a Bruxelles dei Recovery Plan nazionali e le nuove previsioni economiche formulate dalla Commissione Ue offrono una nuova prospettiva per la lettura del Next Generation Eu. Il piano presentato a maggio del 2020 venne ribattezzato il bazooka Ue, ma il raffronto con l’arsenale dispiegato dalla Bce per salvare l’euro è ardito per obiettivi e tipologia di strumenti e temerario sotto il profilo delle risorse. In 5 anni l’Eurotower ha più che raddoppiato il proprio attivo da 2.250 a 4.700 miliardi per abbassare i tassi a lungo termine mentre il piano della Commissione da 750 miliardi presupponeva che la pandemia sarebbe stata arginata in pochi mesi. La realtà del virus è molto diversa, tant’è che la Cna già in autunno ha indicato che la dotazione del Next Generation EU non è più sufficiente in relazione agli obiettivi ambiziosi di rilancio.
Nell’aggiornamento delle previsioni la Commissione Ue stima per il 2021-2022 una spinta dell’1-1,2 per cento dei Recovery Plan sul pil, destinata ad aumentare con il rafforzamento degli investimenti e gli effetti delle riforme. Tuttavia osservando i piani nazionali, le aspettative della Commissione Ue potrebbero essere sopravalutate. Soltanto l’Italia mostra un approccio in linea con la filosofia del piano mentre le principali economie del continente evidenziano un atteggiamento decisamente conservativo. Al netto dell’Italia, il NgEU si sgonfia in termini di risorse mobilitate. Secondo una analisi della Cna, su circa 360 miliardi destinati ai prestiti, l’ammontare richiesto non arriva a 30 miliardi. Germania, Francia e Spagna fanno ricorso solo ai grants (Madrid si riserva di ricorrere ai prestiti nel 2023). Inoltre se le risorse di Germania (25,6 miliardi) e Francia (40,9 miliardi) non andranno a coprire investimenti aggiuntivi l’effetto di stimolo da parte delle due locomotive sarebbe praticamente pari a zero. Escludendo l’Italia le risorse mobilitate sfiorano il 50 per cento del totale con conseguente ridimensionamento in termini di generazione di esternalità positive quale frutto di una azione comune.
L’Italia dunque sarà determinante per il successo del programma europeo essendo il principale beneficiario delle risorse. Tuttavia nel medio termine il ricorso ai prestiti per oltre 122 miliardi comporterà una ulteriore deviazione del debito pubblico italiano rispetto a quello dei principali partner, rendendo vincolante una crescita del pil nominale di almeno 3 punti superiore a quello della Germania. Non è una scommessa spregiudicata ma un approccio coraggioso specialmente se confrontato con l’atteggiamento prudente degli altri paesi Ue. I piani nazionali inoltre evidenziano differenze in termini di allocazione delle risorse. Ogni paese ha priorità diverse. La Germania punta sullo sviluppo della tecnologia dell’idrogeno, produzione di energia da fonti rinnovabili, digitalizzazione, Pa e mobilità sostenibile. La Francia invece concentra le risorse su salute, efficienza energetica degli immobili, lavoro e welfare, energia da rinnovabili. Incrociando i piani dei principali paesi la transizione green rappresenta un comune denominatore, in considerazione del vincolo imposto agli stati membri di allocare almeno il 37 per cento delle risorse su interventi di contrasto al cambiamento climatico. Tale orientamento non è privo di paradossi.
Negli ultimi 4 anni l’Europa ha proceduto a un upgrade degli obiettivi green in ottica ambiziosa ma l’avanzamento non sembra andare di pari passo. Altro elemento comune è l’orientamento ad abbattere le emissioni privilegiando gli interventi più costosi. Un’utilitaria elettrica si traduce in un investimento di quasi 30 mila euro per tagliare una tonnellata di CO2. Sostituire un Tir euro 3 con uno euro 6 è economicamente più vantaggioso, circa 1.600 euro a tonnellata. Nel breve periodo sarebbe più saggio ed efficace abbattere le emissioni dove i costi sono più bassi e investire risorse per ridurre gli oneri di mitigazione che oggi sono ancora proibitivi. I principali paesi europei invece hanno deciso di affrontare la transizione scalando subito l’Everest invece che iniziare dai percorsi pianeggianti. E tale impostazione è in contrasto con l’obiettivo di favorire una transizione equa e diffusa. Si privilegia la scelta di concentrare le risorse su pochi grandi interventi, ripetendo così errori del passato.
Il tempo degli annunci deve lasciare spazio al tempo dei risultati. Ma l’obiettivo dello sviluppo sostenibile non può prescindere da attenzioni e politiche mirate nei confronti delle piccole imprese su temi cruciali per il futuro del continente. Non è questione di sostenere l’anello debole della catena, piuttosto è la valorizzazione di un pezzo fondamentale del nostro sistema economico. Sarebbe auspicabile puntare sull’iniziativa diffusa per la riduzione delle emissioni in particolare su settore immobiliare e trasporto merci, e sulle piccole imprese. La rilevanza del tema della decarbonizzazione avrebbe dovuto rafforzare l’azione di coordinamento delle politiche europee, così come il digitale. Il NgEU aveva tale aspirazione ma i singoli stati, Italia a parte, non l’hanno colta.