Salvate Cingolani dai campioni del veto e della conservazione

Carlo Stagnaro

Il ministro rifiuta l’equazione tra sostenibilità e decrescita e non accontenta le rendite. Per questo bisogna sostenerlo

Salvate il soldato Roberto Cingolani. Il ministro della Transizione ecologica è da giorni nel mirino. Ieri Marco Travaglio gli ha dedicato l’editoriale del Fatto Quotidiano, dando una rappresentazione caricaturale delle sue riflessioni sulle potenzialità dei nuovi mini-reattori nucleari a fissione (oltre che della fusione nucleare). Nel M5s crescono i malumori per le sue parole sul ruolo del gas nella transizione, le cautele sull’auto elettrica e le aperture alla cattura e stoccaggio dell’anidride carbonica. E lo scontro sotterraneo con Dario Franceschini (Il Foglio, 20 maggio) è qualcosa di più di un mero duello tra ministri: riguarda la missione stessa dei rispettivi ministeri. Certo, Cingolani è un corpo estraneo sia alla politica, sia all’ambientalismo estremista e facilone. Lo è perché si rende conto che raggiungere gli obiettivi europei – tagliare le emissioni del 55% entro il 2030 e arrivare a “net zero” nel 2050non sarà un pranzo di gala. E, pertanto, non nasconde né le difficoltà, né l’esigenza di fare un uso razionale di risorse economiche che sono scarse per definizione. Da studioso, egli sa che è semplicemente assurda (oltre che destinata al fallimento) l’idea di perseguire una così estesa trasformazione dei sistemi energetici basandosi solo sulle tecnologie “fancy”, come eolico e fotovoltaico. Non bastano, insomma, le rinnovabili: serve molto di più e di diverso.

 

Lo ha confermato, proprio mercoledì, il rapporto dell’Agenzia internazionale dell’energia. Il documento è ampio e complesso e ci sarà tempo per approfondirlo. Ma, sui punti su cui grillini e massimalisti accusano Cingolani, lascia pochi spazi ai dubbi: “nel 2050 le rinnovabili copriranno i due terzi della domanda energetica […] Ci sarà anche una forte crescita del nucleare, che grossomodo raddoppierà tra il 2020 e il 2050”. E, poco dopo: “Gli usi dei combustibili fossili impossibili da abbattere produrranno nel 2050 1,7 miliardi di tonnellate di CO2, che saranno pienamente compensate dalla ccs associata alle bioenergie o alla cattura diretta dall’aria”. In sintesi, Cingolani non fa che esprimere una posizione mainstream tra gli esperti che si interrogano su come arrivare all’azzeramento delle emissioni nette nel giro di pochi decenni. Sotto questo punto di vista, l’accusa di aver travasato nel Programma nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) le sue idee senza considerare i vincoli politici è due volte ingiusta. Lo è, da un lato, perché Cingolani è arrivato al Mite proprio in forza della sua riconosciuta competenza e indipendenza (nonostante sia stato Beppe Grillo a farne il nome). E, dall’altro, perché semmai il Pnrr risente ancora troppo dell’impostazione precedente, tanto che non c’è spazio per il nucleare (che lo stesso Cingolani colloca in una prospettiva europea e globale, non certo italiana) né per la ccs (come il Ministro ha ribadito nell’intervista al Foglio di mercoledì). La componente più rivoluzionaria riguarda le semplificazioni, non a caso vero terreno di scontro coi partiti e con le burocrazie: mettendo in discussione la rendita da nimby degli uni e la posizione da gatekeeper delle altre, il Ministro si è messo in una posizione scomoda. Lui stesso si lamenta non di rado delle resistenze interne, al punto che a volte dà la sensazione di non aver trovato la giusta chimica per amalgamare i poteri del Mite in materia energetica e ambientale. Né lo aiutano le contorsioni di un pezzo maggioritario della galassia ambientalista, che vorrebbe le semplificazioni solo per gli amici ma pretende di soffocare tra le carte bollate i progetti sgraditi (per esempio i termovalorizzatori).

Sta qui la sua sfida più importante e difficile: non solo scrivere regole più equilibrate di quelle che oggi impediscono gli investimenti, ma anche costruire una macchina ministeriale che non si presti a diventare il contenitore di tutti i “no”, come il ministero dell’Ambiente è stato nel passato e in parte è, mano nella mano con quello dei Beni culturali. Ciò che molti non gli perdonano è il netto rifiuto dell’equazione tra sostenibilità e decrescita e la convinzione che la crisi climatica è un problema che la tecnologia può risolvere, non un cavallo di Troia all’interno del quale si nasconde l’ideologia. Quello che, invece, non potrebbe perdonargli il paese sarebbe l’eventuale divaricazione tra l’ineccepibile analisi del ministro e l’inerzia del suo ministero. Incrociamo le dita.