il foglio del weekend
L'Iri non si fa più
A Palazzo Chigi nessuno vuole rimetterla insieme. Eppure liberarsi di Alitalia, Mps, Ilva e Autostrade non sarà facile. Serve una regia
Chi conosce l’andirivieni del Palazzo è pronto a scommettere che il tempo della Nuova Iri sia già finito. Forse l’avverbio è sbagliato perché per molti quel tempo è durato anche troppo, mentre nel mondo politico lo statalismo non è mai stato abbandonato: l’ingresso nella cantina di Auerbach dove Mefistofele promette a ciascuno il suo vino o, ricorrendo a metafore più prosaiche, l’invito alla grande tavola imbandita, resta sempre un sogno ad occhi aperti per chiunque vada al governo, ma Mario Draghi ha altro per la testa. I consiglieri più ascoltati (a cominciare da Francesco Giavazzi stabilmente installato al piano nobile di Palazzo Chigi, con la finestra spalancata sulla colonna di Marco Aurelio, il più saggio degli imperatori romani) vogliono chiudere la lunga parentesi interventista aperta con i salvataggi bancari decisi a furor di popolo, anzi a furor populista. E Draghi, che negli anni Novanta del secolo scorso aveva contribuito insieme a Romano Prodi e a Carlo Azeglio Ciampi a smontare lo stato padrone, non ha intenzione di rimetterlo insieme come un vecchio meccano, ma non sarà facile liberarsi delle cambiali in bianco firmate dai suoi predecessori.
Alitalia, Autostrade, Ilva, Monte dei Paschi di Siena, rete internet (in ordine alfabetico), sono dossier voluminosi, ciascuno dei quali porta con sé miliardi di euro e si tratta di decisioni che impegnano anche i governi futuri. Draghi è un uomo pragmatico con forti convinzioni (non sembri una contraddizione), il suo metodo è scegliere gli obiettivi e fare tutto il necessario per raggiungerli (whatever it takes potrebbe essere scritto sotto il suo nome come il motto delle antiche casate). Non si tratta di cercare il compromesso o aggiustamenti di comodo: il pendolo che oscilla ciclicamente tra stato e mercato deve trovare un nuovo punto di equilibro attraverso l’alleanza pubblico-privato trovando soluzioni che garantiscano più efficienza e meno indebitamento possibile. Vasto progetto, senza dubbio, persino troppo vasto, ma che ha alcune applicazioni concrete proprio nel caso italiano. Quali?
Lasciamo per ultima la Cdp dove molto se non tutto dovrebbe convergere e cominciamo dall’Alitalia. La vecchia compagnia ha finito i soldi e per il secondo mese consecutivo ha pagato in ritardo gli stipendi, mentre Ita che dovrebbe far rinascere dalle ceneri la compagnia di bandiera, non decolla. “E’ una scatola vuota”, hanno detto i sindacati che si sono incontrati con l’amministratore delegato Fabio Lazzerini e i tre commissari. Intanto, pende sulla sua testa anche la spada europea brandita da Margrethe Vestager. I contrasti con Bruxelles riguardano tre punti: gli slot di Linate (la Ue vuole che Ita rinunci a metà degli slot di Alitalia ed essi vengano assegnati ai concorrenti); lo spezzatino (le attività di handling e manutenzione secondo la Ue non devono andare a Ita ma essere cedute a terzi); infine il nome e il marchio che non dovrebbero andare a Ita. Nel frattempo, le compagnie low cost si espandono occupando quasi totalmente il mercato e crollano i biglietti Alitalia in vista dell’estate. Ita che dovrebbe partire dal primo luglio, rischia di non avere spazio e non potrà mai decollare senza l’appoggio di una grande compagnia. L’unica sponda possibile è Lufthansa. In tal caso, il Tesoro dovrebbe assorbire temporaneamente la nuova società e poi avviare trattative dirette avendo come tramite il governo di Bonn: è stato chiamato piano Cityliner dal nome della sussidiaria a basso costo di Alitalia nel cui capitale potrebbe entrare con una quota di controllo la compagnia tedesca, ma il veicolo può anche cambiare. In ogni caso verrebbero cedute tutte le attività assorbendo 5.500 dipendenti. E l’altra metà? Qui i sindacati alzano barricate e lamentano che l’accordo finirebbe per ridurre il vettore italiano ai minimi, una sorta di Air Dolomiten. In realtà la Swiss Air diventata Swiss è rinata grazie a Lufthansa; la scommessa è che accada anche con Alitalia.
Per l’Aspi (Autostrade per l’Italia) la scadenza chiave è tra dieci giorni: l’assemblea di Atlantia è convocata per lunedì 31 e dovrebbe decidere sulla proposta della Cdp insieme ai fondi Blackstone e Macquarie, l’unica concreta sul tavolo. Poi l’11 giugno si riunirà il consiglio della società controllata dalla famiglia Benetton. L’offerta arriva fino a 9 miliardi di euro per l’insieme della società. Si è fatto avanti Florentino Pérez proponendo una fusione con Abertis della quale controlla il 50 per cento meno un’azione (la maggioranza è di Atlantia), però i nazional-leghisti intendono tenere alla larga gli spagnoli, i grillini vorrebbero la nazionalizzazione (qualcuno ha pensato di mettere in campo addirittura l’Anas), il Pd si lecca le ferite perché a torto o a ragione è stato identificato come lo sponsor dei Benetton. Tutto sembra precostituito dal governo Conte bis, ma a questo punto si fanno un po’ di conti. La mano pubblica dovrebbe tirar fuori dal suo portafoglio una ventina di miliardi di euro, se mettiamo sul tavolo anche i debiti e i 14 miliardi per la manutenzione straordinaria, il 12 per cento dei quali è in carico agli azionisti di minoranza, la compagnia tedesca Allianz e i cinesi di Silk Road. Il fatturato di Aspi è circa 2 miliardi l’anno, in media l’utile generato rappresenta un quarto dei ricavi, quindi il Tesoro verrà ripagato dei suoi investimenti in circa 40 anni. Ne vale la pena?
La benzina che alimenta la grande macchina della Cassa viene da 27 milioni di persone che in media tengono appena 9 mila euro sui loro conti postali. Sono, quindi, piccolissimi risparmiatori che contano sulla garanzia dello stato per dare certezza e solidità ai loro quattrini. Davvero sarebbero contenti di impegnarsi così a lungo termine e versare subito un paio di miliardi di euro alla famiglia Benetton? Si è detto che così la Cdp diventa la società che controlla tutte le reti. Ma intanto la rete unica a banda larga non si fa, e poi la rete autostradale non è prioritaria all’interno del Pnrr dove ben 25 miliardi di euro sono destinati alle ferrovie su 62 miliardi destinati a infrastrutture, mobilità e logistica (oltre ai treni, autobus, navi, porti assorbiranno quasi tutte le risorse disponibili). A questo punto, molti cominciano a chiedersi perché non cambiare itinerario e dare retta alle sollecitazioni di Bruxelles che spinge perché si mettano all’asta tutte le concessioni, non solo le spiagge. Si potrebbe dunque chiamare i soggetti interessati, azzerare tutto, mettere a gara Aspi e far partecipare candidati italiani e stranieri sia finanziari sia industriali che conoscono il settore. Il Tesoro potrebbe incassare (e non pagare) anche più dei 9 miliardi stimati, soprattutto se le autostrade venissero spacchettate. Mutare prospettiva, in perfetto stile Draghi.
Sull’Ilva, oggi chiamata Acciaierie d’Italia, la nomina di Franco Bernabè alla presidenza decisa in solitaria dal capo del governo, ha colto in contropiede i retroscenisti e ha aperto un capitolo nuovo. Il governo Conte ha impegnato un miliardo di euro dei contribuenti per far uscire ArcelorMittal dalla maggioranza. Draghi intende rilanciare, grazie ai fondi europei per la ripresa, la filiera siderurgica che è strategica, questa sì, nella stagione delle grandi infrastrutture aperta dal Pnrr. Con l’aumento di capitale da 400 milioni di euro AmInvest Co. Italy Spa (la società che è affittuaria dei rami di azienda di Ilva in amministrazione straordinaria) il Tesoro ha il 50 per cento dei diritti di voto. Nel nuovo consiglio entrano tre amministratori indicati dallo stato (tra cui il presidente) e tre espressi da Arcelor Mittal (compreso l’amministratore delegato). Il primo passaggio ha visto l’ingresso di Bernabè, il secondo riguarda l’ad Lucia Morselli – che secondo lo statuto ha un voto doppio in consiglio. Il braccio di ferro sui poteri sarà duro, ma l’esito è segnato: l’ex capo dell’Eni e di Telecom non ha intenzione di fare il presidente di campanello; il suo mandato è assicurare un futuro all’industria dell’acciaio e renderla ecosostenibile. Si stanno già cercando intese con l’Eni per alimentare a gas l’acciaieria di Taranto e per catturare l’anidride carbonica, in modo da ridurre l’impatto ambientale. Il nuovo “piano siderurgico” potrebbe coinvolgere anche i privati con i quali non esistono vere sovrapposizioni. Di acciaio ce ne vorrà tanto e di ogni tipo, dai binari per l’alta velocità al tondino per le costruzioni.
Il Monte dei Paschi di Siena verrà venduto. I grillini hanno tentato fino all’ultimo la carta della nazionalizzazione, ma Draghi non ha intenzione di tenerla in pancia al Tesoro e, con quel che costa, Daniele Franco ha fretta di liberarsene. Resta in gioco l’ipotesi, cara al Pd e messa a punto da Roberto Gualtieri, che possa finire in Unicredit, ma in condizioni diverse. Il M5s sostenuto anche dai poteri locali (Siena e dintorni, compreso Eugenio Giani, il presidente piddino della regione Toscana) si è sempre opposto a dividere il gruppo, ma potrebbe essere la via d’uscita. Del resto, il Montepaschi resta un patchwork bancario e non ha mai davvero integrato l’Antonveneta da una parte e la Banca del Salento dall’altra con il corpaccione legato mani e piedi al milieu senese. Un pezzo andrebbe a Unicredit, un pezzo al Mediocredito centrale, un altro potrebbe restare collegato al territorio. Per Unicredit sarebbe un indubbio vantaggio perché potrebbe rafforzarsi nel nord dove soffre la concorrenza di Intesa Sanpaolo. Ma la banca milanese guidata da Andrea Orcel e presieduta da Pier Carlo Padoan che da ministro dell’economia nazionalizzò “temporaneamente” Mps, chiede allo stato di accollarsi le perdite, compresi i costi legali, così come è avvenuto quando le banche venete sono passate a Intesa. C’è il “tesoretto” dei crediti fiscali (circa 2 miliardi di euro), per utilizzarlo bisogna prendere il controllo della banca entro dicembre e arrivare alla fusione entro giugno 2022, anche se si discute di allungare i tempi e ampliare le condizioni anche ad altre acquisizioni (si parla del Banco Bpm).
Intanto, la mitica rete unica digitale lascia il posto al pluralismo delle reti, almeno per il prossimo futuro. Vittorio Colao l’ha sempre pensata così, ma anziché imbarcarsi in un conflitto ideologico, ha rovesciato le priorità: quel che conta è colmare il fossato digitale utilizzando tutti gli strumenti disponibili. In concreto, sulle aree urbane già coperte la Tim sarà in concorrenza con gli altri, nelle zone bianche cioè quelle periferiche e meno redditizie toccherà intervenire a Open Fiber (nella quale la Cdp ha preso la maggioranza). Lo stesso approccio aperto vale per la tecnologia 5G destinata a diventare egemone, sia integrando fisso e mobile, sia sviluppando tutte le potenzialità della telefonia. Insomma, nessun ruolo dominante di Tim, non perché ha azionisti francesi, ma per evitare posizioni monopolistiche bocciate da Bruxelles. Nel mondo digitale lo stato ha una funzione importante (a cominciare da quella regolatoria), ma è il mercato a guidare la danza industriale. Anche la quota che Cdp possiede in Tim e ne fa il secondo azionista diventa inattuale: nata sotto la spinta dei sovranisti, che senso ha senza la rete unica e ora che Vivendi esce da Mediaset mentre Vincent Bolloré lascia Mediobanca?
E veniamo così alla Cassa depositi e prestiti, il nuovo centauro dell’economia. Il ministro Daniele Franco, azionista di riferimento, ha chiesto chiarezza strategica. La Cdp durante la gestione Costamagna è diventata anche una banca d’affari, comprando pacchetti azionari ad ampio raggio. Con Fabrizio Palermo, complice anche la crisi economica, è stata a un tempo la mano salvifica dello stato e l’incubatrice di “campioni nazionali”, un po’ Gepi un po’ Iri, anche se ha ha rifiutato le pressioni più rischiose come quelle per intervenire nell’Alitalia o nell’Ilva. Adesso c’è una situazione nuova, c’è il Pnrr che richiede una regia politica a Palazzo Chigi e al ministero dell’Economia e una regia operativa: fa senso che essa spetti proprio alla Cdp. In questo modo la Cassa recupera la sua funzione originaria su scala ancor più ampia. Palermo potrà cambiare spalla al fucile o bisognerà scegliere un altro comandante in capo? Il candidato alternativo ora come nel 2018 è Dario Scannapieco, vicepresidente della Banca europea per gli investimenti che tre anni fa venne bruciato dai grillini i quali vollero Palermo (allora ottimo direttore finanziario della Cdp), con il consenso di Giancarlo Giorgetti che aveva altre mire per la Lega. Luigi Di Maio si è espresso apertamente per la riconferma di Palermo che avrebbe anche l’appoggio trasversale di Matteo Salvini (mentre Giorgetti questa volta si tiene di lato) e di Massimo D’Alema il quale si dice abbia messo il suo baffino in parecchi giochi. Un coté non proprio vincente visto il drastico ridimensionamento di Domenico Arcuri. Il M5s potrebbe rifarsi collocando Palermo alle Ferrovie, una poltrona d’oro sulla quale siede Gianfranco Battisti in quota grillina. Ma inutile esercitarsi nel totonomine. Gli uomini sono fondamentali, sia chiaro, tuttavia in questo momento, mentre è apertissimo il bingo del Pnrr, contano soprattutto le strategie. Che volete fare? Lo chiedono i paesi che mettono a disposizione le loro tre A, cioè la loro solidità finanziaria, garantendo per l’Italia sui mercati finanziari. A loro come agli italiani si debbono risposte chiare.