l'intervista
"Sul blocco dei licenziamenti un compromesso non risolutivo", ci dice Seghezzi
"L'accordo trovato dal governo non dirime la questione di fondo, che sono le politiche attive. Il costo del blocco lo pagano soprattutto tirocinanti e contratti a termine". Parla il presidente della fondazione Adapt
“L’accordo che il governo ha trovato sul blocco dei licenziamenti mi sembra un buon compromesso, che però serve a rilanciare la palla in tribuna. Non dirime la questione di fondo”. Professor Francesco Seghezzi, ci aiuta a capire qual è? “Il problema è che da vent’anni in Italia si dice si voler riformare le politiche attive del lavoro. In questo anno e mezzo non s’è fatto nulla, anche nel Piano nazionale di ripresa e resilienza c’è davvero poco di operativo, solo un inizio. Sicuramente l’accordo è meglio di niente, ma nulla che possa giustificare una contrapposizione così forte”, dice il presidente di Adapt, fondazione che studia il mercato internazionale del lavoro istituita da Marco Biagi nel 2000.
Il dibattito di questi ultimi giorni ha visto agitarsi e sbracciarsi da una parte Confindustria, con sponde nella Lega, che aveva criticato un’estensione fino alla fine di agosto per chi avesse chiesto la cassa Covid entro la fine di giugno, come da proposta del ministro del Lavoro Andrea Orlando. Dall’altra i sindacati, che chiedevano un prolungamento per tutti fino all’autunno, quando si ipotizza possa essere messa in cantiere la riforma degli ammortizzatori sociali. E’ prevalsa una via di mezzo: le aziende di grandi dimensioni potranno tornare a licenziare dal primo luglio. Quelle piccole dal primo novembre. Le prime, però, avranno la possibilità di continuare a fruire della cassa Covid gratuita. In quel caso andranno incontro a un blocco dei licenziamenti per tutta la durata della cig. In pratica si passa da un sistema di divieti a uno di incentivi. “Abbiamo visto contrapporsi posizioni nette, come se ci sia qualcuno che non vede l’ora di licenziare. Questa decisione in parte accontenta tutti, con un trade-off tra aiuti economici e proroga del blocco, e in parte permette loro di tornare a rivendicare qualcos’altro. Ma il tema vero è che gli eventuali licenziamenti li dovremmo affrontare già da adesso con una strategia più organica, non un minuto dopo, arrivando in ritardo”, puntualizza ancora Seghezzi.
Le parti sociali hanno chiesto che si rimandasse la discussione a dopo l’estate. Arrivando a uno sblocco dei licenziamenti solo dopo aver già avviato una revisione delle politiche attive. Secondo il presidente di Adapt però “questa previsione è poco realistica. Se si pensa al fatto che è oltre vent’anni che aspettiamo queste riforme, è molto improbabile che si riescano ad affrontare processi economici che richiedono un confronto molto approfondito in soli quattro mesi”. Di certo c’è che una decisione sulla proroga andava almeno messa in conto, visto che l’Italia è l’unico paese in Europa ad aver introdotto per decreto il divieto di licenziamento. Una soluzione che ha ingessato il mercato del lavoro – chiediamo a Seghezzi – al punto da produrre strascichi per i mesi a venire? “Gli effetti sono stati molteplici. Alcuni studi, come quello di Bankitalia, dicono che sono state salvaguardate alcune centinaia di migliaia di posti di lavoro. Ma in generale l’adozione di questo strumento di garanzia ha comportato che i costi si scaricassero principalmente sulle categorie meno protette, come i lavoratori a tempo determinato e i tirocinanti. Per cui, bene se si sono salvati dei posti di lavoro. Ma moltissimi lo hanno perso senza che nel dibattito pubblico si accendesse un interesse nei loro confronti”.
Nelle pieghe del decreto Sostegni bis, poi, sono state introdotte almeno un paio di fattispecie, come i contratti di rioccupazione o di espansione, che cercano di incentivare l’ingresso nel mercato del lavoro. Come spiega Seghezzi “i contratti di rioccupazione hanno un intento nobile, e cioè reintrodurre nel mercato del lavoro persone che ne sono uscite in quanto disoccupati. Il mio dubbio è che, essendo misure pensate per un orizzonte temporale molto breve, e cioè sei mesi, non costituiscano un vantaggio per essere assunti a tempo indeterminato. Sono più un tampone che un modo per ripensare nel profondo l’accesso al lavoro in Italia”.