Tempi duri
Cairo tra le dune
Lo scontro con Blackstone, i conti della pandemia, i problemi del Torino. Un guaio dopo l'altro per l’editore del Corriere
Riuscirà Urbano Cairo a ripagare il fondo americano Blackstone, consolidare il Corriere della Sera, portare in pareggio La7 e, ultimo, ma non per importanza, tenere il Torino in serie A dopo aver evitato per un soffio la retrocessione? Sembra il titolo di un film alla Lina Wertmüller, ma i guai si sono accumulati uno dopo l’altro, con una sequenza impressionante. Non è solo colpa del Covid, anche se la pandemia ha reso tutto più difficile. Questa serie di sfortunati eventi arriva quando l’editore sembrava addirittura pronto a scendere in campo (quello della politica) mentre un coro greco stava per mettere in scena la rappresentazione del nuovo Berlusconi. Che cosa gli manca, in fondo? Ha un giornale e una tv, una squadra di calcio, un gran talento di venditore, una formazione professionale forgiata alla scuola del Cavaliere. In più sente, lui così percettivo, il rimpianto crescente – soprattutto nel suo mondo di uomini d’affari, di moderati, di Nord produttivo – per quella “rivoluzione liberale ma non troppo” che poteva essere e non è stata, per quell’Italia del fare e non del dire che poteva rinascere e non è mai tornata.
Alti lai si levano a destra, ma, incredibile a dirsi, persino a sinistra, se gli acerrimi nemici di una volta adesso invocano l’uomo della terra promessa: chi avrebbe mai pensato a un autodafè come quello di Michele Santoro? Troppo, tutto insieme e tutto in una volta anche per un imprenditore di temperamento, un inflessibile tagliatore di note spese e risanatore di bilanci, un “impresario” nel senso migliore della definizione. Perché i talenti di Cairo vanno analizzati e apprezzati soprattutto adesso, nel momento in cui si trova ad affrontare le più serie difficoltà e molti amici, sostenitori, finanziatori di un tempo gli chiedono conto. Un destino ancor più ingrato nella terra di Fabrizio Maramaldo.
Sono passati cinque anni dall’ardita opas (offerta pubblica di acquisto e scambio azioni) lanciata su Rcs, il gruppo proprietario – tra gli altri – dei quotidiani Corriere della Sera e Gazzetta dello Sport, oltre che, attraverso la controllata Unidad Editorial, delle testate spagnole El Mundo e Marca. È maggio, il mese delle rose, e l’operazione appare subito ricca di implicazioni sulla scacchiera dei poteri reali. Cairo sfida il blocco storico dell’establishment nordista, egemonizzato dalla Fiat di John Elkann e dalla Mediobanca di Alberto Nagel, vincendo contro la cordata guidata dal finanziere Andrea Bonomi. L’editore rischia quattrini suoi, ma soprattutto è sostenuto da Intesa Sanpaolo, azionista di Rcs e principale creditore. La banca gestita da Carlo Messina non è esattamente fuori dal club dei potenti, ma vuol fare da contrappeso a piazzetta Cuccia (nel 2017 si arriverà alla sfida aperta per il controllo delle Assicurazioni Generali). Al Corsera si rompe il vecchio equilibrio garantito da Giovanni Bazoli (l’uomo che aveva creato Intesa Sanpaolo), proprio mentre la politica italiana viene attraversata e travolta dall’onda nazional-populista: i Vaffa Day di Beppe Grillo aprono il Parlamento come una scatoletta (così diceva il comico e non faceva ridere) mentre la defenestrazione di Umberto Bossi spiana la strada al “capitano” Matteo Salvini.
Sia i grillini sia i leghisti lanciano una offensiva parallela contro “i poteri forti sostenuti dalle cancellerie europee”. Il Corriere e La7 concedono spazio agli “uomini nuovi”, danno voce a quelli che si incoronano “amici del popolo”. La televisione è la nave corsara con i suoi talk show, lo storico quotidiano della borghesia lombarda naviga come uno yacht nella corrente. Si tratta di intercettare lo spirito del tempo e i potenziali lettori-clienti, o di arredare una nuova stanza dei bottoni? Ai posteri l’ardua sentenza. Certo è che nel frattempo Repubblica, arroccata nel fortino della vecchia sinistra, aveva lasciato aperto il salone delle feste. Oggi il cambio di linea editoriale e collocazione sul mercato, dopo l’acquisizione da parte della Exor di John Elkann, lancia una nuova sfida concorrenziale al quotidiano di via Solferino. L’esperimento Draghi può fare il resto.
Urbano Cairo era entrato in Rcs nel 2013 comprando per 16 milioni di euro una quota del 2,8 per cento, arrotondata al 4,7 per cento due anni dopo. Dunque, non è calato dal cielo, si è inserito con abilità spendendo parte degli utili distribuiti dalla sua società (è stato calcolato che in quindici anni fossero arrivati a 191 milioni di euro) per far parte di un salotto politico-finanziario sempre più confuso e disorientato. Tuttavia, i milioni di euro sborsati non sarebbero stati sufficienti a conquistare il primo gruppo editoriale italiano senza il sostegno di Banca Intesa che gli ha messo a disposizione un prestito da 332 milioni di euro con scadenza 2022 (rinegoziato poi a condizioni migliori).
Aveva preso fin da giovane l’ascensore sociale e un piano dopo l’altro Cairo era salito sempre più su, finché dopo 25 anni aveva raggiunto il tetto. Nato a Milano nel 1957 da genitori di Masio, in provincia di Alessandria – il padre Giuseppe era un rappresentante di mobili, mentre la madre Maria Giulia Castelli, faceva l’insegnante – dopo il diploma al liceo scientifico statale “Luigi Cremona”, Urbano s’iscrive alla Bocconi. Appena laureato, mentre è ancora sotto le armi, ottiene un colloquio con Silvio Berlusconi che lo prende in prova come assistente personale. È il 1981, e dall’anno successivo lavora stabilmente per la Fininvest, in particolare in Publitalia; tra l’altro si mette in luce come responsabile dell’acquisizione dell’emittente televisiva Italia 1 da Edilio Rusconi. Il rapporto dura per ben 14 anni quando Cairo scioglie il contratto e finisce anche lui nel frullatore di Mani pulite: al processo chiede il patteggiamento, a differenza degli altri manager, e concorda una pena di diciannove mesi con la condizionale per i reati di appropriazione indebita, fatture per operazioni inesistenti e falso in bilancio. È il 1995 e Cairo riparte dalla pubblicità vendendola alla Rizzoli. Nel 1999 comincia la nuova carriera di editore prendendo la Giorgio Mondadori e si sposa con Mali Pelandini dalla quale avrà tre figli (è il terzo matrimonio dopo quello con la scrittrice Anna Cataldi e la modella svedese Tove Hornelius, dalla quale è nata una figlia). Nel 2003 nasce la Cairo Communication che si lancia nella stampa popolare. Ingaggia due campioni del genere, Sandro Mayer e Silvana Giacobini, affidando loro la direzione di due nuovi periodici popolari, Dipiù, Diva e Donna, che fa pagare solo 50 centesimi a copia. Nel 2013 arriva la tv con La7 acquistata da Telecom Italia. Poi il culmine del successo grazie al sostegno determinante della banca Imi che fa capo alla Intesa Sanpaolo. E’ soprattutto l’allora presidente Gaetano Miccichè a scommettere sull’editore, convincendo lo stesso Bazoli che sia l’uomo giusto visti i disastrosi risultati degli ultimi anni. Miccichè entra poi nel consiglio di amministrazione della nuova Rcs.
L’affare Blackstone è un’eredità della passata gestione in mano a Pietro Scott Jovane, il manager voluto da John Elkann. Nel 2013 la Rcs è alla ricerca di denaro: nei due anni precedenti aveva accumulato perdite per oltre un miliardo di euro, aveva debiti finanziari netti con le banche (Intesa in testa) per 845 milioni a fronte di un margine lordo azzerato e un patrimonio di soli 179 milioni di euro. Così vende per 120 milioni di euro il complesso immobiliare in via Solferino, via San Marco e via Balzan, attraverso una serie di fondi, compreso il Delphine gestito da Kryalos sgr. Cinque anni dopo Blackstone decide di cedere la storica sede del Corsera alla compagnia tedesca di assicurazioni Allianz per un prezzo più che doppio (circa 250 milioni di euro), ma Urbano Cairo si oppone e chiede al Tribunale di Milano un arbitrato per accertare la nullità del contratto. “E’ una svendita” secondo il nuovo patron del gruppo: visto che il canone d’affitto applicato da Blackstone è di circa 10,3 milioni, sarebbe più equo un prezzo di 190-200 milioni. Il fondo reagisce, sostiene di essere danneggiato perché nel frattempo la Allianz si è tirata fuori e chiede un risarcimento danni fino a 100 milioni di dollari.
Il 24 aprile 2019 la Corte suprema dello stato di New York sospende il procedimento in attesa dell’arbitrato italiano. Nel maggio 2020 il Tribunale di Milano dispone due consulenze tecniche per accertare le condizioni in cui si trovava la Rcs nel 2013, nonché il valore di mercato dell’immobile, tenuto conto, fra l’altro, di tutte le condizioni dell’operazione. E così veniamo all’ultima puntata (ultima in ordine di tempo perché ci saranno ancora code giudiziarie). Il 17 maggio scorso la Camera arbitrale dà torto a Cairo: “Non è dato ravvisare nel comportamento di Blackstone nulla che appaia indiscutibilmente contrario ai doveri di correttezza e buona fede”, si legge nella sentenza, “la parte acquirente ha legittimamente cercato di conseguire le condizioni per essa più vantaggiose, senza che sia emersa la prova di alcuna indebita pressione operata sulla controparte”.
Blackstone gongola: aveva chiesto un doppio risarcimento (300 milioni da Rcs che in borsa vale oggi 364 milioni di euro e altrettanti da Cairo), ma potrebbe lasciar perdere se l’editore si ricomprasse via Solferino e dintorni per 250 milioni tanto quanto avrebbe pagato Allianz. La proposta era stata respinta da Cairo, ma a questo punto può tornare interessante, anche se l’onere finanziario metterebbe a terra il gruppo che edita il Corsera e la Gazzetta. La sfida al colosso americano sembrava azzardata ai soci di minoranza (tra i quali Diego Della Valle, che pure era stato contrario alla vendita) e alla stessa banca Intesa. Ora la débâcle giudiziaria accentua i malumori e allarma i creditori. Intanto la Consob presieduta da Paolo Savona chiede come mai la Rcs non abbia accantonato somme in grado di far fronte all’eventuale sconfitta. Tra l’altro Cairo ha ottenuto la manleva, ciò vuol dire che a pagare non sarebbe lui, ma la casa editrice, aggravando così la situazione finanziaria che non si presenta rosea dopo la pandemia.
Il 2020 è stato un anno segnato dal Covid, ma non disastroso. I ricavi dell’intero gruppo Cairo Communication sono scesi da un miliardo e 252 a un miliardo e 48 milioni di euro, il risultato netto da 42,1 a 16,5 milioni, però si sono ridotti anche i debiti da 134,6 a 63,2 milioni. Il primo trimestre 2021 si è chiuso con un risultato netto negativo per 3,2 milioni, comunque è una perdita dimezzata rispetto a un anno prima. Il futuro si presenta migliore, nonostante la crisi infinita della carta stampata e le incertezze sulle entrate pubblicitarie. Intanto è passato il ricorso al voto di maggioranza che gli consente di salire dal 59 al 65 per cento (seguito da Della Valle con l’8,2, Mediobanca con 7,1, Unipol con 5,3 e China national Chemical, alias Pirelli con 5,1). Insomma, un vero arrocco, la Rcs non è contendibile, solo Cairo può decidere se aprire a un nuovo socio e chi invitare a cena.
Ma c’è una variabile politica da tenere d’occhio. Il ciclo populista si è chiuso, con Mario Draghi le fanfare non entrano e non escono più dal Palazzo, si odono note diverse: non trombe, ma violini, non fisarmoniche, ma pianoforti. Le rumorose intemerate televisive hanno stancato, come mostrano i modesti risultati dei tribuni del popolo. E se la musica cambia bisogna cambiare i suonatori. Anche la galassia finanziaria del nord sta mutando partitura. Intesa adesso canta sulle note di Mediobanca, mentre Cairo si sintonizza sempre più sulle onde della Unicredit e di Del Vecchio. Quanto ai tifosi del Toro, si chiedono che fine faranno i gioiellini rimasti, tra i quali innanzitutto Andrea Belotti per il quale la Roma di José Mourinho offre 15 milioni di euro (due anni fa Cairo l’avrebbe ceduto solo per 100 milioni).
Da quel che sappiamo l’editore cercherà di prendere tempo per preparare la controffensiva. Come? Potrebbe vendere le attività spagnole che hanno chiuso il 2020 con un fatturato di 203 milioni di euro: la Rcs diventa così più snella e più solida. Può cercare nuovi prestiti, ma da chi? Non è probabile che Intesa Sanpaolo si esponga ancora, i rapporti si sono deteriorati e dicono che Messina vorrebbe tirarsi fuori. Forse Unicredit? Il nuovo amministratore delegato Andrea Orcel viene strattonato da ogni parte: il governo vuole vendergli il Montepaschi, c’è sul tavolo la possibilità di ampliare il raggio di attività anche verso altre banche come la Bpm (ex Popolare di Milano), e in primo luogo occorre da consolidare il capitale dell’unico gruppo creditizio italiano considerato sistemico e sul quale la Bce vigila con occhiuta attenzione. La terza via, secondo voci di Borsa, è coinvolgere Leonardo Del Vecchio, con il quale Cairo condivide una solida amicizia cementata dall’avvocato Sergio Erede, sconfitto per il momento da Blackstone, ma non domo. Davvero il patron di Luxottica intende fare il Figaro della finanza italiana? Tutti lo vogliono, tutti lo chiamano, quante botteghe è disposto ad aprire? Sta scalando Mediobanca, vuole contare di più nelle Assicurazioni Generali e tutto questo gli costa caro. Sobbarcarsi anche gli oneri della Rcs forse è troppo persino per lui. In ogni caso, siamo solo agli inizi. Ogni condottiero ha bisogno che lo assistano la fortuna e la virtù, diceva Machiavelli, ora la pandemia s’allontana e Cairo non manca di audacia, ambizione e fantasia. Ci stupirà ancora?