Foto Roberto Monaldo / LaPresse

L'ideologia fa male all'Ilva

Marco Bentivogli

Le sentenze di primo grado trasformate in verità assolute e tutti i tabù da rimuovere per cercare una terza via europea sull’acciaio. Manifesto per una rivoluzione necessaria (ma il tempo stringe)

Lunedì 31 maggio presso la Corte di assise di Taranto, come sapete, è stata letta la sentenza del processo Ilva “Ambiente svenduto”. Intanto parliamo dei tempi. La sentenza è di primo grado, in un processo iniziato nel 2012 con i maxi sequestri e arrivato a una prima conclusione dopo 389 udienze da dieci ore l’una cominciate a maggio 2016. Il reato contestato è di associazione a delinquere finalizzata al disastro ambientale, avvelenamento di sostanze alimentari e omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro. Mille le parti civili, con oltre trenta miliardi di richieste di risarcimento. Un maxiprocesso difficilissimo, in cui si sono avvicendati durante il dibattimento centinaia di testi tra periti e scienziati, per chili infiniti di faldoni e controperizie, che hanno fatto sorgere molti dubbi sulla “perizia madre” del gip. Attenzione: qualsiasi dubbio sul percorso giudiziario, nel pensiero binario di questa vicenda, ti fa schierare dalla parte degli “assassini”. A nulla, poi, è servito il dibattimento ai fini delle richieste dei pm che, a detta di tutti i collegi difensivi di tutti gli imputati sono rimasti fermi alle indagini preliminari, come se a nulla fossero serviti questi cinque anni di udienze infinite.

 

Dibattimento, anzi processo, che non è riuscito neppure a dimostrare, nonostante decine di ricerche epidemiologiche, studi di coorte, registri tumori e cartelle cliniche, che vi sia un nesso di causalità tra le emissioni di Ilva e le morti o malattie di Taranto. Tranne l’amianto, che è dimostrato causa di mesotelioma, malattia che a detta della Asl di Taranto produrrà un eccesso di morti in provincia per i prossimi trent’anni, e che perlopiù è causato dall’arsenale e dalle navi in Mar Piccolo per cui continua a essere ripetutamente condannata la Marina militare. Ma mai in 60 anni è stato dimostrato un legame di causalità tra inquinamento Ilva e un decesso, e tutti, come ricordato ieri sul Foglio da Annarita Digiorgio, abbiamo imparato in questa pandemia grazie ai vaccini quanto sia importante la differenza tra causalità e correlazione nel rapporto tra una sostanza e un effetto.

 

Ma se ci sono responsabilità, nella storia di Ilva, siamo sicuri che si possano circoscrivere al periodo dei Riva? Innanzitutto, su 60 anni di vita dell’Ilva solo 17 sono stati a gestione privata. L’azienda nasce negli anni 60. Nel ’71 raddoppia la propria capacità produttiva, contemporaneamente tutti i comuni limitrofi cambiano i piani regolatori per poter costruire sempre più in prossimità dello stabilimento. Ed è all’epoca che iniziano le prime manifestazioni ambientaliste. La politica binaria di Taranto, come si è visto, ha spaccato fino a oggi la città. E chi tenta di conciliare sviluppo e ambiente, ovunque viene dipinto come un “connivente degli assassini”. Dopo i primi 30 anni c’è una novità: arrivano i Riva, nel 1995, che utilizzano i benefici previdenziali per gli esposti all’amianto e svecchiano lo stabilimento con migliaia di assunzioni. Il contratto di acquisto con lo stato, all’art. 6, imponeva di mantenere i livelli produttivi e occupazionali, con penali miliardarie in caso di mancato rispetto della clausola contrattuale. Nel contratto pertanto c’era il mantenimento della produzione da ciclo integrale, quella che dà qualità maggiore all’acciaio ma che senza nuove tecnologie produce quantità di polveri, diossine e idrocarburi policiclici aromatici che sono cancerogeni e pericolosissimi.

 

L’evidenza è chiara: se disastro ambientale c’è stato, dunque, il primo responsabile è lo stato. E se si ha la pazienza di studiare, si capirà che il vero disastro ambientale non è quello, come sostengono i pm, creato dai privati che avrebbero sacrificato la vita delle persone “sull’altare del profitto”, ma è quello che in buona parte venne creato ai tempi dell’Italsider pubblica (1989), quando risultò evidente che i rallentatori delle bonifiche e dell’ambientalizzazione furono in buona parte proprio i commissari ministeriali (fatevi raccontare dai vecchi siderurgici ionici quanti investimenti fece l’Italsider pubblica sull’ambiente). I Riva avrebbero certamente potuto fare di più ma l’Ilva ha iniziato a inquinare anche quando non faceva profitti e perdeva denaro pubblico. Dunque, di che cosa parliamo?

 

Prima ancora della sentenza di lunedì, i tribunali che più recentemente si sono occupati della vicenda sono stati quelli di Taranto e Milano. Quest’ultimo, nella sentenza di assoluzione dalla bancarotta fraudolenta del 2020, ha scritto che la proprietà Riva “a partire dal 1995 e fino al 2012 ha sostenuto costi in materia di ambiente ammontanti a oltre un miliardo di euro, e più di tre miliardi per l’ammodernamento e la costruzione di nuovi impianti”. La stessa sentenza ha fissato che lo stabilimento di Taranto osservava, all’epoca dei fatti, i limiti emissivi previsti dalle leggi; e che aveva in gran parte anticipato, già nel 2011, le tecniche di seconda generazione che sarebbero entrate in vigore solo nel 2018. Dal sequestro in poi (tranne la parentesi della gestione commissariale di Enrico Bondi) l’intervento è sempre stato lo stesso, mai risolutivo mentre il resto del mondo realizzava impianti sempre più ecosostenibili. Perché nel frattempo quelle prescrizioni ambientali obbligatorie sono state via via ogni anno posticipate per legge, in cambio, per non inquinare e superare i limiti emissivi, del dimezzamento della produzione. E quindi in costante perdita. Se fino allo scorso anno questa scelta poteva comunque essere giustificata da una riduzione del mercato, ora non lo è più. Perché oggi sono cresciuti esponenzialmente domanda e costo dell’acciaio e Ilva è ferma e le imprese italiane comprano acciaio all’estero, quando lo trovano.

 

E’ accaduto di tutto, in ogni caso, dal sequestro del 26 luglio 2012. Appena la procura firmò il sequestro della fabbrica, Francesco Boccia, allora deputato Ds dopo essere stato commissario liquidatore del comune di Taranto, disse: “Ci sono dei momenti difficili per tutti, anche per un magistrato, nei quali diventa necessario avere il coraggio di fermarsi un attimo prima. Ilva rappresenta la siderurgia italiana. Quando il magistrato decide di bloccare l’impianto deve sapere, anche se non è scritto nel codice penale, che quanto sta per fare è una condanna a morte dell’azienda. Negli ultimi 15 anni a Taranto sono stati fatti un numero imprecisato di interventi per conciliare diritto e lavoro. Gli stessi magistrati non hanno la certezza inconfutabile dell’impatto delle emissioni. Solo un pazzo non chiuderebbe un’azienda che inquina, ma qui non è così”.

 

Lo scontro e lo squilibrio di potere tra i poteri dello stato sono stati la costante che ha impedito soluzioni rapide e intelligenti, che ha polarizzato gli schieramenti e ha fatto perdere nove anni.  E così, poi, si arriva alla sentenza di lunedì (sentenza di primo grado: ma i garantisti dove sono?). Le redazioni dei giornali parlano di svolta storica, ma a increspare i toni trionfalistici vi è la condanna di Nichi Vendola (che all’epoca in realtà dimostrò di essere un buon negoziatore, quando firmò, con i sindacati, un accordo a Palazzo Chigi, presente Gianni Letta, per rafforzare la sensoristica per il monitoraggio delle emissioni e per far scendere le emissioni di diossina sotto la soglia della nuova legge regionale). Per cui grandi messaggi di solidarietà a Vendola, ma applausi per le altre condanne. Nessuna parola o quasi, sui giornali di ieri, per l’ex prefetto Bruno Ferrante, assolto dopo aver passato anni terribili. Nonostante questo, anche a costo di voler essere controcorrente, a Taranto i cittadini, i lavoratori dell’Ilva e dell’indotto sanno che un’alternativa per Ilva non è impossibile. E in passato si è stati a un passo dall’imboccare una strada virtuosa: rendere il più grande polo siderurgico d’Europa un campione di sostenibilità. Ma quest’ultima è il risultato non già dell’evocazione di princìpi e bandierine ma di percorsi di conciliazione di più obiettivi e valori. L’ho sempre ripetuto: ormai acciaio e ambiente litigano solo in Italia, perché vi sono tecnologie che consentono risultati straordinari. Ma nel paradiso del pensiero binario i media assicurano visibilità mediatica solo agli opposti: a industriali ottocenteschi che considerano l’inquinamento da mettere nel conto del benessere assicurato dallo sviluppo e ambientalisti ideologici che considerano la produzione “un evento criminoso”.

 

Taranto poteva diventare la più grande capitale del riscatto della nuova economia ambientale. Era l’impegno che assunse il governo, nel 2014, per decisione di quelli che allora erano  presidente del Consiglio, Enrico Letta, e ministro dell’Ambiente, Andrea Orlando. Ma quegli impegni poi sono stati rimandati quando la fabbrica è tornata in mano allo stato.

 

Tutto questo per dire cosa? Che nessun processo assicura risultati duraturi se non cambia la cultura di un paese. Gli ultimatum che arrivano al coraggioso e competente ministro Roberto Cingolani, persino dal Pd e dai Cinque stelle che lo hanno nominato, ci fanno purtroppo pensare che toccherà aspettare inerti il prossimo grado di giudizio, e poi un altro ancora. In un momento in cui la supply chain globale soffre per le forniture, e crescono i prezzi delle materie prime, non è positivo per la manifattura europea dover dipendere dalle materie prime nella guerra dei dazi tra Cina e Usa. Le politiche dei nostri sovranisti ci hanno portato a importare, strutturalmente, dal nord della Germania e dalla Turchia l’acciaio che serve alle nostre produzioni. E così il paradosso è che mentre la manifattura italiana e l’industria che ripartono oggi chiedono una grande quantità di acciaio che non trovano sul mercato, c’è chi tifa per la chiusura dell’area a caldo e la sua riconversione a parco giochi.

 

A Bagnoli dopo trent’anni  il sindaco festeggia il render del vincitore di un concorso di idee. Un lavoratore in quell’estate ci disse: mio fratello e mio cognato sono morti, guai a voi se mi chiudete la fabbrica senza alternative vere. Aveva ragione lui.

 

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