Su Facebook è stato creato un gruppo pubblico chiamato Vergogna E45. I primi esposti alla procura risalgono al 2013 

Le cattive strade di stato

Stefano Cingolani

Cassa depositi e prestiti conquista Aspi e si prepara a gestire le autostrade italiane. Ma lo stato oggi come amministra le autostrade che gestisce già? La storia disastrosa della E45 come modello da non imitare

Da Capo Nord a capo sud, da Alta in Norvegia a Gela in Sicilia, attraverso Finlandia, Svezia, Danimarca, Germania, Austria, fino a varcare le Alpi come fecero le popolazioni in fuga dalla piccola glaciazione del VI secolo per incappare nella peste di Giustiniano. Ricordi terribili in sintonia con lo spirito di questi tempi ancora cupi, ma, con tutte le differenze del caso, rimandi storici che s’addicono alla via dolorosa, alias strada europea E45, ben 5.190 chilometri pieni di peripezie. Questa volta non è colpa della natura matrigna, ma dell’incuria umana.

 

 

Pensata come “Strada dell’Asse” da Mussolini e Hitler, venne poi progettata nel dopoguerra e in Italia se ne fece paladino il ministro democristiano Benigno Zaccagnini, deputato romagnolo (era nato a Faenza) impegnato a collegare Ravenna a Roma. Negli anni 70 fu inserita nella strada europea E7 per poi essere ribattezzata E45 nel 1975, una fettuccia d’asfalto alternativa all’autostrada del Sole (A1) e alla Bologna-Taranto (A14). Ancora oggi è la dorsale prediletta dai camionisti che attraversano l’Italia da nord a sud liberi dai caselli, oltre che dai turisti stranieri. Per l’Anas, che la gestisce, si tratta di “un asse strategico, l’unica direttrice nord-sud senza pedaggio”, anche se non è proprio così, visto che il percorso s’incrocia in più parti con autostrade a pagamento. In ogni caso, dovrebbe essere tenuta come un gioiellino, invece è un percorso di guerra.

 

La superstrada d’Europa s’interrompe in Italia. E non è (non solo) una metafora. La maggior parte dei corridoi che debbono attraversare il continente, i grandi progetti concepiti con spirito federale, anzi unitario, si bloccano al di qua delle Alpi. Per non parlare degli Appennini. Le colpe rimbalzano come palline di ping pong: è l’austerità, è l’avidità dei gestori privati, è la burocrazia, sono gli ecologisti, sono i magistrati, è lo stato che non fa il suo dovere. Forse è di tutto un po’, ma anziché sciogliere i lacci e rimuovere gli impacci, viene scelta la scorciatoia statalista, a spese dei contribuenti. Quanto dovrà spendere la Cassa depositi e prestiti per gestire le autostrade sottratte ai Benetton? Sarà in grado lei di togliere i tappi? Riuscirà il Piano di ripresa e resilienza a riaprire le rotte d’Europa?

  

  

On the road, sorprese e guai non finiscono mai. Lo ha scoperto anche il ministro Enrico Giovannini. Appena insediato, l’economista che regge sulle spalle oneri e onori delle infrastrutture e dei trasporti – ben 62 miliardi da spendere secondo il Piano nazionale di ripresa e resilienza – ha trovato sulla sua scrivania una lettera di ferma e vibrata (come si dice) protesta. L’ha inviata Claudio Marcelli, sindaco di Pieve Santo Stefano in provincia di Arezzo, un comune della Valtiberina che conta appena tremila abitanti. La questione riguarda la via Tiberina bis, strada disastrata da frane e smottamenti ancora non percorribile nonostante impegni e promesse scritte (doveva essere ripristinata nel luglio dello scorso anno). Sarebbe un percorso secondario se la E45 fosse affidabile. La superstrada, invece, è stata a lungo bloccata, funziona a intermittenza, quando per il maltempo come nel gennaio scorso, quando per incidenti e lavori in corso, esplosioni in galleria, ponti malandati chiusi perché insicuri (nel 2019 il viadotto Puleto in Toscana, tra Arezzo e la provincia di Forlì-Cesena, per il quale sono finiti sotto processo tre dirigenti dell’Anas, nel 2020 il viadotto Montoro in Umbria tra Orte e Terni).

 

Il sindaco di Pieve ricorda che nel 2017 il governo guidato da Paolo Gentiloni aveva stanziato 1,6 miliardi destinati all’Anas affinché sistemasse la superstrada. “Tale convenzione fu totalmente disattesa da Anas”, accusa. Non c’entrano niente le privatizzazioni, le concessioni, le revoche, i Benetton e quant’altro; c’entra quello stato al quale si vorrebbe ora affidare più o meno direttamente anche la gestione di Autostrade per l’Italia. Ma non è per amor di polemica che vogliamo raccontare storia e storie della E45, è per dimostrare con i fatti il deterioramento delle infrastrutture per la mobilità, come vengono definite, che sono il sistema sanguigno di qualsiasi società civile. Il Pnrr può essere la via maestra per cambiare sistema o l’ultima occasione perduta.

 

Di intoppi, intrecci e pasticci se ne incontrano ovunque, sia chiaro. Partiamo dall’estremo settentrione, dal triangolo tra Norvegia, Finlandia e Svezia attraversato dal circolo polare artico. Lassù la E45 è arrivata formalmente solo nel 2017, prima il limite settentrionale era fissato a Göteborg, seconda città svedese e capitale industriale (non solo per la Volvo) che si raggiunge con strade a due o a quattro corsie, tutte gratuite. Di qui si prende il traghetto per sbarcare in Danimarca a Friederikshaven e scendere nel conteso Schleswig Hollstein che guerre, morti e feriti costò a danesi e tedeschi nella loro più aspra contesa territoriale vinta da Otto von Bismarck nel 1864. Da Ellund, la città che segna il confine, fino a Würzburg sul Meno, la E45 si sposa con la autostrada tedesca numero 7 fino a Norimberga e poi con la A9 fino alla tangenziale di Monaco in Baviera. E qui si viene inghiottiti dal traffico.

 

Auto e camion in coda sulla E45 dopo che la Danimarca ha riaperto i suoi confini alla Germania il 15 giugno 2020 (Claus Fisker / Ritzau Scanpix via AP) 
  

L’attraversamento longitudinale della Germania rivela parecchie sorprese all’ignaro automobilista straniero che magari sta attento a come guidano i tedeschi, rapidi, impazienti, bruschi con quei salti da destra a sinistra annunciati con due rapide frecce che a mala pena l’occhio fa in tempo a percepire, ma resta sorpreso per i continui stop and go provocati dai cantieri in estate e dal mal tempo in tutto il resto dell’anno. Le infrastrutture sono il punto debole del Modell Deutschland, lo ha detto Angela Merkel, la quale ha provato a cambiare marcia senza riuscirci. Ma è ancora niente rispetto a quel che si trova oltre le Alpi. Superata la barriera monegasca, tutto fila liscio fino al Brennero dove la E45 incontra la fettuccia autostradale che attraversa la stretta valle dell’Adige. Gestita dalle autorità locali, è da tempo inadeguata a incanalare il traffico di merci e uomini che caratterizza la macro regione economica tra il lombardo-veneto e la Mitteleuropa: il lento e faticoso cammino che porta a Modena è noto a tutti gli italiani e le sei corsie fino a Bologna sono un intervallo troppo breve prima di affrontare la lunga via crucis. Il tratto di A14 fino a Cesena offre l’antipasto, poi arrivano i cavoli amari.

  

  

Su Facebook è stato creato un gruppo pubblico chiamato Vergogna E45. I primi esposti alla procura risalgono al 2013. Da Cesena a Orte è tutta una interruzione. Un pezzo di giunto nel dicembre 2014 ha addirittura “infilzato” un’auto. “Andavo a 70 chilometri orari – racconta Maria Nappini, che se l’è vista davvero brutta – e tornavo da Sansepolcro dove risiedono i miei genitori a Lido Adriano dove abito io. Avevo un camion davanti e uno dietro. La macchina ha ricevuto un gran colpo, è scattato l’airbag. Per me è stato il più classico dei colpi di frusta nelle lesioni. La vettura ha sbandato leggermente e in pratica si è fermata da sola”.

  

Il Resto del Carlino nella cronaca di Ravenna ha ricordato le speranze deluse della E45. “E’ come un sogno eterno: quarant’anni fa, in Romagna, ben pochi tratti erano realizzati, uno di questi (allora la superstrada si chiamava E7) iniziava poco a nord di Cesena con un grande e augurante cartello sulla vecchia Via Emilia, ma dopo pochissimi chilometri la strada da sogno finiva in aperta campagna e per riprenderla occorreva raggiungere il valico o quasi. Poi, assai lentamente, è stata completata e tutti abbiamo tratto un sospiro di sollievo, ma poco dopo è arrivato il divieto continuo dei 90 chilometri all’ora su tutto il percorso romagnolo: stupiva che una nuova superstrada avesse lo stesso limite di velocità consueto per le normali strade statali”. Finché non si è capito il perché del divieto: le frequenti corsie uniche, soprattutto nel tratto appenninico, ma anche in pianura, le uscite obbligatorie sulla vecchia e sempre più degradata viabilità ordinaria, i cantieri che durano anni ed anni, il percorso alternato con semaforo. Una geremiade infinita.

  

La sindrome dei viadotti, un po’ realtà un po’ psicosi collettiva dopo il crollo del ponte Morandi a Genova, ha provocato un vera e propria trombosi viaria durata, tra il lusco e il brusco, quasi due anni. Nel 2019 suona l’allarme per il viadotto Puleto, interviene la magistratura di Arezzo e non va troppo per il sottile: nel dicembre scorso sono finiti in giudizio i tre funzionari dell’Anas che avrebbero dovuto rimediare a quello che il procuratore Roberto Rossi ha definito “palese ed evidente degrado”. Nell’estate 2020 tocca a un altro viadotto, il Montoro, senza bisogno di tribunali. L’ultima nota dolente (per il momento) risale al febbraio scorso: “Per consentire l’esecuzione dei lavori di ripristino della pavimentazione stradale sono previste limitazioni lungo la strada statale E45 in provincia di Ravenna”; segue un calendario che dal 22 febbraio arriva a metà marzo.

  

Da Orte a Roma la E45 diventa Autostrada del Sole, corre via sul tratto ampliato e rinnovato fino a Napoli, ma poco dopo cominciano le sofferenze. Il racconto di viaggio confluisce nella saga amara della Salerno-Reggio Calabria: avviata anch’essa da Zaccagnini nel 1961, l’opera è stata completata (forse) poco prima che scoppiasse la pandemia. A Reggio, comunque, il viaggio europeo si ferma, almeno finché non arriverà, se mai arriverà, il ponte sullo Stretto. Parlare di E45 in Sicilia, infatti, significa raccontare le peripezie della A18 divisa in due nel tempo e nello spazio. La Messina-Catania, chiamata allora Autostrada delle Zagare, viene inaugurata nel 1971. Un secondo tratto tra Siracusa e Gela era stato progettato fin dagli anni 60 in stretto collegamento con il polo petrolchimico. Ma prima di completarlo c’è voluto quasi mezzo secolo, costruito pezzo dopo pezzo, con lunghe interruzioni oltre agli usuali blocchi giudiziari (il tratto Noto-Rosolini è stato sequestrato nel 2008 per “cedimenti anomali”).

  

Da Siracusa al termine dell’autostrada c’è una distanza di 40 chilometri coperta al ritmo di un anno a chilometro. Tra i due tronconi si entra in un labirinto che comincia con la tangenziale di Catania e sbocca nella statale 114 Orientale sicula. Le autostrade sono gestite dal consorzio regionale, il resto dall’Anas. E si sta come sugli alberi d’autunno le foglie, sperando che non si ripeta la sorte della A20 Messina-Palermo dove nel marzo scorso sono stati sequestrati ben 22 cavalcavia in “pericolo urgente di crollo”, con tanto di dirigenti del consorzio regionale indagati per “omissione di manutenzione”. Questa volta nessuno può prendersela con i vizi privati e vantare le pubbliche virtù.

 

La sorte delle strade statali o delle autostrade irrorate da una pioggia di miliardi mai vista è legata strettamente alla scelta degli uomini giusti al posto giusto. Scade il mandato dell’amministratore delegato dell’Anas Massimo Simonini. Figlio d’arte (il padre ha lavorato nell’ente pubblico per 40 anni) aveva stupito tutti tre anni fa il balzo da dirigente di terzo livello alla massima poltrona. La spinta era venuta da Danilo Toninelli; il grillino allora ministro delle Infrastrutture lo aveva elogiato così: “Un ingegnere molto apprezzato, dirigente responsabile di ponti, viadotti e gallerie, quindi un uomo che conosce benissimo le infrastrutture più delicate della grande rete viaria di Anas, circa 30 mila chilometri. Non un capo azienda paracadutato dall’esterno secondo logiche di lottizzazione politica”.

 

Già, proprio i ponti, i viadotti, le gallerie, quelli chiusi, bloccati, sequestrati, i punti nevralgici più sensibili dell’intera rete che dovrebbero essere tenuti sotto un controllo oculato, restaurati con la cura di un’opera d’arte. La storia sta lì ad ammonire, ma a quanto pare non insegna nulla. L’Anas dipende ora dalle Ferrovie dello Stato, grandi beneficiarie del Pnrr con circa 25 miliardi di euro. Il progetto di trovare sinergie tra strade ferrate e strade asfaltate non ha fatto passi avanti, vedremo cosa accadrà con i soldi del piano e se la E45 troverà la diritta via da tempo smarrita.

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