Ma alla fine chi paga?
Il paradosso della tassazione globale: potrebbe costare di più ai paesi che la invocano
L’accordo tra i leader dei sette paesi più industrializzati sull’aliquota minima del 15 per cento è un piccolo passo, ma non è ancora chiaro in quale direzione. Non solo, e non tanto, perché le decisioni prese in seno al G7 non sono giuridicamente vincolanti: bisogna fare ancora molta strada per giungere a un risultato concreto, e questo è un interessante e importante segno che il multilateralismo è ancora vivo, o quasi. Soprattutto, occorre attendere che gli stati scoprano le carte nei fori competenti. Quel che sappiamo è ancora poco. L’accordo si regge su due pilastri. Il primo riguarda la redistribuzione del gettito fiscale: le imprese multinazionali che hanno un margine di profitto globale superiore al 10 per cento dovranno versare nel paese dove hanno venduto i loro prodotti le imposte su una percentuale di almeno un quinto degli utili eccedenti tale soglia. Si tratta di una deviazione significativa rispetto ai princìpi che hanno retto finora il sistema tributario internazionale, secondo cui le imposte si pagano nel luogo dove avviene la produzione. Tuttavia, questa norma dovrebbe riassorbire le tasse sulle transazioni digitali, introdotte – tra gli altri – da Italia, Francia e Gran Bretagna. Il secondo pilastro, quello che ha fatto più discutere, prevede un’aliquota minima del 15 per cento per l’imposta sul reddito d’impresa. Oggi la media Ocse è del 24 per cento. Negli Stati Uniti Donald Trump ha ridotto l’aliquota dal 35 al 21 per cento, ma ora Biden vorrebbe alzare l’asticella fino al 28.
Ed è questa la ragione del suo attivismo in materia. L’obiettivo è chiaro: far pagare più tasse alle multinazionali. Gli effetti lo sono molto meno. Le tasse dovute dipendono da molti parametri, di cui l’aliquota nominale non è necessariamente il più importante. Per capire chi, quanto e a chi pagherà (più) imposte bisogna comprendere se e come la riforma investirà anche la determinazione delle basi imponibili, le deduzioni, le detrazioni, i crediti d’imposta e i sussidi. E’ abbastanza probabile che la concorrenza tra le diverse giurisdizioni si sposti semplicemente dalla gara a chi ha l’aliquota più bassa a chi ha l’imponibile più stretto – cosa che, in parte, sta già accadendo. Anche perché i paradisi fiscali, nei fatti, hanno ormai perso gran parte del loro appeal (basti pensare agli obblighi di disclosure e alle conseguenze dell’inserimento nella lista nera).
Senza conoscere questi dettagli, è letteralmente impossibile dire chi vince e chi perde, sia tra gli stati, sia tra le multinazionali. E’ anche impossibile dire se ci troviamo di fronte a un tentativo di razionalizzare la fiscalità internazionale, che di per sé potrebbe essere condivisibile, oppure a uno sforzo coordinato per estrarre maggior gettito fiscale. In quest’ultimo caso, che appare assai probabile almeno per quanto riguarda le intenzioni, l’ulteriore domanda a cui rispondere è chi, in ultima analisi, ne farà le spese. Dal punto di vista formale, la concorrenza fiscale ha spinto i governi a placare progressivamente i propri appetiti fiscali. E’, questo, un trend di lungo termine in atto almeno dagli anni Ottanta. Per esempio, nel nostro paese l’aliquota Ires è scesa dal 32,5 per cento di quindici anni fa all’attuale 24 per cento (al netto di altri balzelli, come l’Irap). La bassa tassazione è un elemento di attrazione delle imprese e degli investimenti che sono un motore fondamentale della crescita economica. Eliminare la concorrenza fiscale sana significa rischiare di rendere il motore della crescita più imballato. Da un punto di vista sostanziale, invece, nessuna tassa incide sulle imprese: il portafoglio di ultima istanza è sempre quello delle persone (azionisti, consumatori e lavoratori). Il paradosso, quindi, è che una manovra congegnata per prevenire il “profit shifting” potrebbe risolversi in un rincaro di beni e servizi ai danni proprio dei cittadini residenti nei paesi promotori dell’iniziativa.