E' ora di tornare al lavoro
Anni di politiche basate sul “reddito di pigranza” hanno contribuito all’attuale squilibrio fra domanda e offerta. L’unica medicina è riscoprire una teoria oggi erosa: lavorare ha un valore esistenziale
Non si contano le formule liberali o liberiste che fanno appello a uscire allo scoperto, a procurarsi un lavoro, a ingegnarsi e impegnarsi seriamente per un lavoro come condizione prima di buona cittadinanza e di emulazione sociale. La Thatcher ci mise un duro, impietoso sentimento di sdegno, quando davanti alla chiesa di Scozia in un discorso celebre disse che “un uomo che non vuole lavorare, non mangi”. Non era la sola a scansare ogni forma di, come si dice oggi con parola ruffiana, “empatia”. Per i conservatori liberisti o avevi lo scopo vitale di applicare un tuo talento al lavoro o eri un parassita. Non circolava la lagna sul lavoro precario, al contrario, la flessibilità del mercato del lavoro era considerata la chiave di volta del successo, della corsa allo sviluppo, della manifestazione di una virtù individuale come sfida e competizione.
Questo tessuto o sostrato ideologico e culturale è stato eroso dal tempo e dall’esperienza, oltre che da un forte ritorno di moralismo solidaristico, e gli stessi successi delle economie liberate dallo statalismo pianificatore nell’epoca del suo fallimento hanno poi portato a riconsiderare in forme varie la centralità del welfare e dell’assistenza. Sono nate le teorie sul reddito di base o universale o di cittadinanza, la crisi finanziaria ha moltiplicato gli sforzi in direzione delle garanzie minime di lavoro e di reddito, ha cominciato a prevalere l’attenzione ai diritti, fino al punto che la gig economy e gigantesche conglomerate tecnologiche di lavoro e sapere sono finite sul banco degli accusati nel processo alla globalizzazione. Con la pandemia, forzatamente e comprensibilmente, l’empatia sociale si è fatta legge d’eccezione e sistematicamente si è dovuti ricorrere, di fronte a chiusure e blocchi motivati da un fattore imprevedibile, esterno, a una lunga teoria di bonus, sostegni, ristori e compensazioni varie dell’inattività indotta dalla crisi sanitaria.
Questo percorso ha qualcosa di naturale, perfino di ovvio, e non bisogna scandalizzarsi troppo. Il mondo di mercato non è una fossa criminale dove si accumulano i cadaveri delle persone, la sua correzione può essere la risposta giusta a circostanze e pratiche che entrano in una fase decisamente critica. Non avevamo del tutto torto, esagerazioni propagandistiche a parte, a parlare di un “reddito di pigranza”, quando il governo Di Maio-Salvini varò la fine della povertà, la cosiddetta fine, nella forma di un reddito di cittadinanza congegnato in modo indipendente dalla logica di inclusione e aiuto differenziato che fino ad allora prevaleva. In via di fatto si può e si deve riconoscere, soprattutto nei lavori stagionali legati al turismo, che quando il reddito di cittadinanza è competitivo con i salari erogati dalle imprese piccole e medie, a fronte di un impiego anche parecchio duro dei lavoratori interessati, e induce a ritirarsi nel bozzolo, la questione diventa seria, e non solo perché si disincentiva l’arruolamento con erogazioni a perdere dello stato, anche perché i salari e le condizioni di lavoro sono spesso in sé un disincentivo a farsi assumere.
Ora la denuncia di uno squilibrio tra domanda e offerta di lavoro risuona nuovamente con toni da stordire. Dopo una fase di reddito di stato diffuso e di lavoro diminuito, sia per i blocchi sia per gli effetti delle nuove forme di lavoro a distanza, la ripartenza cantata con toni da ruggenti anni Venti si scontra con un impaccio che fa perno su qualità del lavoro, abilità di lavoro e disponibilità a certi ruoli professionali. La discussione in merito è algoritmica, per così dire, e molto empatica, e manca del tutto qualcosa che sia la cultura laburista sia la cultura liberale hanno sempre considerato, anche con accenti e toni opposti, decisiva: la volontà di lavoro, l’idea che il tempo libero o liberato non può esaurire le potenzialità della persona, e che la ricerca del lavoro è una delle strade necessarie di uno sforzo e di uno slancio in cui conta la disponibilità personale a fare reddito attraverso il proprio sforzo e talento. Come è avvenuto almeno in parte nel fiorire della gig economy, che non è tutta rose e fiori ma nemmeno un caso banale di deroga ai diritti della persona, altrimenti non ci sarebbe stata proprio, come diffusa esperienza di socializzazione, quell’economia del lavoretto che ha preso tanto spazio nel mercato e nella vita quotidiana di molti. La difesa laburista del lavoro e la cultura lavorista dei conservatori liberali avevano qualcosa in comune, la considerazione del lavoro come un obiettivo esistenziale, vitale. L’impressione è che non sia più così.