Il fallimento annunciato dell'Inpgi

Luciano Capone

La cassa previdenziale dei giornalisti è ormai in default, ma la politica e i giornali fanno finta di nulla. La soluzione proposta, lo spostamento di una fetta di contribuenti dall'Inps all'Inpgi, è un danno per la collettività che non risolve il problema ma lo alimenta

L’Inpgi, la cassa previdenziale dei giornalisti, è un morto che cammina. Nel 2020 ha chiuso un bilancio con 253 milioni di euro di disavanzo che nel 2021 sarà di 225 milioni. Ma per stare solo alla gestione previdenziale, quella che più conta, a fronte di entrate contributive pari a 372 milioni di euro, vengono pagate pensioni per 576 milioni. Un deficit più che raddoppiato dal 2017 al 2021 e che rende la situazione insostenibile: il nuovo bilancio attuariale prevede l’azzeramento del patrimonio, attualmente pari a circa 1 miliardo, nel 2025. Tra quattro anni non ci saranno più neppure le sedie. Lo squilibrio deriva da mala gestio, prepensionamenti facili e pensioni generose, ma soprattutto da uno squilibrio della piramide lavorativa dovuto alla crisi strutturale del settore: tanti pensionati con assegni generosi e sempre meno giovani lavoratori a pagare i contributi.


Si tratta, con tutta evidenza, di un fallimento annunciato e inevitabile. Eppure se ne parla poco sui giornali, spesso pronti ad affrontare il tema delle riforme necessarie a rendere il sistema previdenziale del paese sostenibile, e ne parlano poco i partiti. C’è un episodio che spiega perché la politica se ne sta zitta. Nel dicembre del 2011, poco dopo la famosa riforma delle pensioni, l’allora ministro del Welfare Elsa Fornero partecipando a un convegno della Fnsi, il sindacato dei giornalisti, disse che “l’Inpgi ha problemi di sostenibilità” e pertanto bisognava porsi il problema di guardare non solo ai pensionati attuali ma “anche a quelli futuri”. Serviva un intervento radicale. L’analisi della Fornero era abbastanza semplice e, alla luce della situazione attuale, veritiera. Eppure suscitò una reazione incredibilmente feroce, che negava il problema: “L’attacco del ministro Fornero all’Inpgi preoccupa profondamente perché è immotivato, denigratorio, e tenta di colpire una cassa che ha i conti in ordine”, rispose il sindacato. Il segretario generale della Fnsi Franco Siddi parlò di “delusione e sconcerto” oltre che di “dubbi e retropensieri gravi”. La storia si è incaricata di dare ragione alla Fornero, ma quegli attacchi subiti spiegano perché la politica si tenga alla larga dal tema Inpgi.

 

Come si pensa di uscirne? Nei giorni scorsi l’Inpgi ha approvato una specie di manovra, per ridurre le spese e aumentare le entrate, la cui misura principale è un contributo straordinario dell’1% a carico dei giornalisti attivi (aumento delle tasse) e dei pensionati (taglio dell’assegno). Il complesso delle misure vale circa 20 milioni di euro, ovvero meno del 10% del disavanzo da 225 milioni. Pertanto è, dal punto di vista contabile, completamente inutile. Ma serve a giustificare, nelle intenzioni dell’Inpgi, un inevitabile salvataggio dello stato. E quali sono le soluzioni in campo? 


Ciò che l’Inpgi vorrebbe è un “allargamento della platea”, una soluzione prevista dal “decreto Crescita” del governo Conte, che parla di un “passaggio di soggetti assicurati dall’Inps all’Inpgi”. Si tratta, in sintesi, di spostare i cosiddetti “comunicatori professionali”, circa 17 mila persone, dall’Inps all’Inpgi. Questa proposta è stata giustamente criticata dall’economista ed ex presidente dell’Inps Tito Boeri, che ha parlato apertamente di uno “scippo” ai danni dell’Inps. Scippo tra l’altro fatto contro la volontà dei “comunicatori”, ai quali verrebbe imposto per legge il passaggio a una cassa fallimentare e che non dà alcuna certezza per il futuro. Da un lato quindi lo stato ci mette comunque i soldi, perché lo spostamento dei “comunicatori” crea un deficit nel bilancio dell’Inps a cui viene erosa la base contributiva; dall’altro la deportazione dei “comunicatori” non risolve i problemi dell’Inpgi, ma li rinvia. Naturalmente questa è la strada preferita dall’Inpgi perché le consente di mantenere in vita se stessa e tutto il suo sistema inefficiente. E’ altrettanto evidente, però, che non si tratta della soluzione ideale per la collettività, cioè per tutti i contribuenti a partire dai comunicatori già designati come agnello sacrificale.  

 

Ma posto che un intervento dello stato è inevitabile, come farlo? La via maestra in situazioni  del genere è quella di accompagnare il salvataggio (bail-out) a un haircut (bail-in). In questo caso la soluzione più logica sarebbe la chiusura dell’Inpgi attraverso un assorbimento dell’Inps, come avvenuto per altre casse, insieme a un ricalcolo contributivo delle pensioni retributive in essere dei giornalisti, spesso attribuite con criteri molto più generosi di quelli dell’Inps.

 
Il presidente dell’Inps Pasquale Tridico propende per questa idea (anche se non ha parlato di ricalcolo): “Noi saremmo in grado di assorbire l’Inpgi, così abbiamo fatto in passato”. Ma già è arrivata la solita, spropositata, reazione della Fnsi secondo cui le dichiarazioni di Tridico “sono di inaudita gravità perché rappresentano una chiara ingerenza nell’attività dell’Inpgi”. Il sindacato non accetta ingerenze dall’Inps:  vuole solo i suoi soldi. La politica e il governo tacciono.

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali