Ripartenza & Investimenti
Tutti a cercare l'oro che luccica nel lusso
L’uomo più ricco del mondo è il re Mida delle più importanti firme del settore. Come Armani con Ferrari, oggi tutti vogliono copiare Bernard Arnault e puntare sui marchi esclusivi. E le tasse?
“Siamo fatti anche noi della materia di cui son fatti i sogni; e nello spazio e nel tempo d’un sogno è racchiusa la nostra breve vita”.
William Shakespeare,
”La Tempesta”, atto IV
Se ci chiedono chi è l’uomo più ricco del mondo a chi pensiamo? Nell’Ottocento, quando i debiti soffocavano i regni c’era un banchiere come Rothschild. Poi lo scettro è passato ai petrolieri primo tra tutti Rockefeller, ai signori dell’acciaio, i Carnegie, i Krupp, ai fabbricanti di auto, come Henry Ford e i suoi seguaci. Hanno costruito quella civiltà delle macchine che ci ha condotto fino alla macchina che pensa e agisce quasi come l’uomo. A cavallo del Secondo millennio la corona del denaro ha cinto i campioni della quarta Rivoluzione industriale oggi giunta a compimento: Bill Gates ha guidato a lungo la folta schiera per lasciare il testimone a Jeff Bezos il quale ha sposato internet all’antico mestiere del mercante. Ebbene adesso il tocco di Mida spetta al re del lusso. Sì, l’uomo più ricco del mondo è Bernard Arnault: 186,3 miliardi di dollari contro i 186 di Bezos, un’inezia, un primato effimero, ma dal grande significato simbolico. La cifra dipende dalle oscillazioni della Borsa, quindi la classifica cambia, sorpassi e contro sorpassi tra i due sembrano destinati a ripetersi, mentre Elon Musk che di miliardi ne ha solo 147, deve accontentarsi del terzo posto. Ma si resta comunque increduli: possibile che borsette e champagne valgano più della grande nube digitale, della corsa allo spazio o dell’auto elettrica?
Nel 2008, quando è scoppiata la crisi dei mutui subprime, i ricchi, anche gli straricchi, hanno pianto calde lacrime: i primi 400 crapuloni secondo la classifica di Forbes avevano impiegato tre anni per tornare ai livelli precedenti. Questa volta non è così: si calcola che da marzo a dicembre dell’anno scorso abbiano guadagnato circa un miliardo di dollari. La pagella pop inventata da un altro riccone come Steve Forbes è un Baedecker della storia, un’utile guida non solo nella fiera della vanità, ma lungo i percorsi che imbocca la società. Oggi, dopo l’anno più orribile in cui l’intera umanità è stata travolta da un biblico flagello, ci svegliamo dall’incubo per gettarci nel sogno e il lusso, l’arte, la vita sono fatti della stessa materia.
Nel 2019, prima del Covid, uno studio stilato da Deloitte, Global Powers of Luxury Goods, ha calcolato che le 100 più grandi aziende mondiali di beni di lusso avevano generato vendite per 281 miliardi di dollari, con una crescita di 15 miliardi. In vetta alla classifica il quintetto composto dai colossi Lvmh, Estée Lauder, Kering, Hermès e Richemont. Il luttuoso 2020 si era chiuso con una perdita tra il 25 per cento e il 45 per cento, secondo il Boston Consulting Group (Bcg). Un crollo consistente, ma non permanente. Quest’anno, infatti, le multinazionali del lusso si sono riprese in modo considerevole, facendo segnare record storici in Borsa. Il valore di Lvmh è salito a 340 miliardi di euro rispetto ai 258 miliardi di fine gennaio. La capitalizzazione di Hermès ha superato i 127 miliardi di euro, circa 25 in più rispetto a fine gennaio: quando a Canton la boutique ha riaperto dopo quasi 4 mesi di chiusura, in un giorno ha fatturato 2 milioni e mezzo di euro. L’americana Estée Lauder quota 109 miliardi di dollari americani (+15 per cento in sei mesi). Un’azione Richemont, la holding di Ginevra dell’alta orologeria e gioielleria, con marchi come Cartier, valeva 79 franchi svizzeri a gennaio e ora ha superato i 113 franchi. Kering di François Pinault è a 92 miliardi di euro, anche grazie a Gucci: ha guadagnato quasi 24 miliardi negli ultimi sei mesi. Colossi a parte, si spingono in avanti anche gli italiani come Prada (+23 per cento) e Moncler (+18 per cento). Alla spinta della ripresa cinese e a un buon esordio per la stagione degli utili, si aggiunge la fine dei lockdown in una serie di paesi grandi consumatori.
Fin qui stiamo parlando dei gruppi tradizionali, gioielli, abiti, liquori, da secoli l’empireo dove l’esistenza si consuma tra ozi e bagordi. Ma i nuovi protagonisti vengono dal basso (se così si può dire), dal mondo fumoso delle ciminiere, dalle catene di montaggio, dal rombo dei motori, come gli Agnelli o i Porsche. Gli aspiranti campioni di questo secolo spuntano da arene inaspettate, da quella che nel Novecento era stata l’industria delle industrie, da chi fabbricava le macchine per il popolo e adesso vuole alimentare lo sciupio di pochi. Pochi? Sciupio? “Il termine è infelice, come viene usato ha un sottinteso di biasimo, invece non deve assumersi in senso odioso, come se implicasse uno spreco illegittimo di prodotti o di vite umane”, scriveva oltre un secolo fa Thorstein Veblen nel suo libro di maggior successo: “La teoria della classe agiata” pubblicato nel 1899. L’economista e sociologo americano aveva analizzato l’espansione sempre più vasta di un ceto sociale che fin dalla società antica era rimasto chiuso nei privilegi aristocratici grazie ai quali legittimava il rifiuto del lavoro e il primato del consumo. Molte delle sue elucubrazioni sono decisamente superate, tuttavia restano felici le intuizioni sull’emulazione finanziaria, l’agiatezza vistosa, i canoni finanziari del gusto (tutti titoli di alcuni capitoli tra i più stimolanti). Attenzione, il saggio non è una rassegna di comportamenti soggettivi che diventano di gruppo o di classe, ma uno “studio economico delle istituzioni”, come recita il sottotitolo: è questa l’ambizione di Veblen il quale spiega subito, nelle prime righe della prefazione, che “scopo di queste indagini è di discutere il posto e il valore della classe agiata come fattore economico nella vita moderna”.
Werner Sombart, il grande quanto controverso sociologo tedesco che coniò il termine capitalismo (mai usato da Karl Marx) e parlò anche per la prima volta di “distruzione creatrice”, espressione resa popolare da Joseph Schumpeter, nel 1913, l’anno cruciale che chiude il secolo cominciato a Vienna nel 1815, quello del trionfo della prima borghesia industriale pronta a gettarsi in un massacro di massa, pubblica un libro intitolato “Il Borghese” con il quale smentisce, con una maggiore attenzione alla storia, l’arcinota equazione di Max Weber tra l’etica protestante e lo spirito del capitalismo. In realtà la borghesia (e con essa il capitalismo) è nata nei borghi (nomen omen) della cattolica Italia. La stessa classe che, facendosi via via largo tra i due Soli, la Chiesa e l’Impero, ha trasformato profondamente la funzione del lusso (e dell’arte che ad esso s’accompagna): da sempre trait d’union tra piacere e potere, è diventato non solo un grande spettacolo di massa, ma l’immagine stessa della propria città nella quale si rispecchiavano gli abitanti, anche le classi sociali minori, facendo ingelosire i vicini e gli avversari.
Basti vedere Firenze, Pisa, Siena, Venezia o quel che resta dell’antica Milano. Una élite nata dal commercio difeso e talvolta imposto con le armi, ha generato un modello sociale, economico e politico rifiutando l’assolutismo dei barbarici sovrani francesi o inglesi, così come l’austero regime imperiale, e sfidando il papa (molti loro rampolli saliranno persino al soglio di Pietro). Passerà quasi un secolo poi, in pieno Rinascimento, re, imperatori e pontefici, imparata la lezione, faranno del lusso un instrumentum regni. La Controriforma e il barocco romano lo useranno contro il fosco luteranesimo che voleva rispolverare l’iconoclastia come oggi il fondamentalismo puritano.
Il moderno successo del lusso si deve alla legge di Engel. Uno statistico tedesco, Ernst Engel, nel 1857 aveva pubblicato un saggio intitolato “Il costo della vita delle famiglie belghe di lavoratori, un tempo e oggi”. Analizzando le spese dedicate al consumo in relazione al reddito, aveva trovato che, tanto più una famiglia è povera, tanto maggiore è la quota destinata all’acquisto di beni di prima necessità, in particolare i generi alimentari. L’aumento del reddito non determina però una crescita corrispondente della spesa alimentare. Engel osservò che, in tali circostanze, le scelte migrano verso beni superiori poiché la disponibilità di maggiori risorse economiche spinge i consumatori a orientare in alto le proprie preferenze; è presumibile dunque che, superata una certa soglia di reddito, l’aumento della domanda di questi beni sia più che proporzionale. La verifica viene dalla stessa classifica del lusso: sono in testa gli Stati Uniti, seguiti dalla Cina, al terzo posto il Giappone. Poi avviene una prima deviazione rispetto al criterio del prodotto lordo: infatti l’Italia si piazza al quarto posto seguita da Francia, Gran Bretagna, Corea del Sud e Germania. La spiegazione ha a che fare con la specializzazione produttiva più che con il reddito nazionale: il pil della Germania supera tutti in Europa, ma quanto alla moda è un testa a testa tra Italia e Francia. L’economia lascia il posto alla storia e alla cultura; il mondo delle merci apre le sue finestre al mondo dei sogni. E qui, sulla via del sogno si stanno incamminando i nuovi protagonisti.
“La domanda per i beni di lusso continua a essere solida come una roccia nel lungo termine e ha solide radici”, sostiene Erwan Rambourg analista alla banca britannica HSBC che ha lavorato nel marketing per Cartier e Dior. L’apertura solenne a Parigi, lunedì scorso, del grande magazzino art nouveau La Samaritaine, ristrutturato dal Lvmh in modo magistrale (ha impiegato 15 anni spendendo 750 milioni di euro), con Bernard Arnault e Emmanuel Macron a braccetto, è diventato un messaggio di ripartenza.
Il successo di Arnault resta per molti versi anomalo. Un uomo d’affari, un uomo di finanza, non un sarto, un designer o un protagonista del circo del fashion. Abiti grigi, aspetto poco appariscente, maniere forbite, con le lunghe mani aduse alla tastiera dell’amato pianoforte e lo sguardo di ghiaccio. Ma una volontà di ferro e una vorace abilità finanziaria, sostenuta da quello che è stato chiamato capitalismo di relazione diffuso in Francia tanto quanto in Italia, anche se con maggiore estensione strategica. L’alfiere della grandeur arriva dal Nord triste e nuvoloso di Roubaix, la Manchester francese, dove è nato il 15 marzo 1949 tra acciaio e carbone. Suo padre si occupava di appalti e lavori pubblici, lui comincia vendendo case turistiche. Quando nel 1981 François Mitterrand diventa presidente della Repubblica alla testa del fronte di sinistra, emigra negli Stati Uniti dove lo ripesca Antoine Bernheim, il socio della Lazard che sarà suo mentore e padrino (in Italia diverrà poi anche presidente delle Generali aiutando un altro figlioccio, Vincent Bolloré, a penetrare nel fortino della Mediobanca). Grazie a lui acquisisce Boussac, lo storico gruppo tessile in fallimento che possedeva Le Bon Marché, il grande magazzino più chic di Parigi e soprattutto la Maison Dior. E’ l’inizio di una cavalcata trionfale, sotto la sua falce cade il fior fiore del lusso: Louis Vuitton, Moët et Chandon, Hennessy (di qui l’acronimo Lvmh). Ha conquistato la grande distribuzione francese, ha superato i confini nazionali, sono finite nelle sue mani glorie italiane come Bulgari, Fendi, Loro Piana o alberghi come il Cipriani di Venezia.
Un portafoglio con 75 grandi marchi, ultimi arrivati in gennaio i sandali tedeschi Birkenstock e i gioielli americani di Tiffany, che da soli valgono più di 15 miliardi. Secondo l’agenzia Bloomberg, Lvmh è la prima conglomerata europea e la terza al mondo. Nell’anno e mezzo di pandemia lui e il suo rivale americano Bezos hanno continuato a fare soldi a palate. Bezos perché il lockdown ha gettato il mondo nelle braccia dei colossi del virtuale. Arnault perché, dopo un primo choc, i beni di lusso hanno ripreso la loro corsa come se niente fosse.
Fare come Arnault: molti si sono messi all’inseguimento lungo la via del sogno. Gli ultimi, ma certo non meno importanti, sono capitalisti la cui fortuna si deve alla costruzione di automobili per il popolo come, appunto, la Volkswagen e la Fiat con le sue vetturette dalla Topolino alla 500. La notizia più fresca viene dalla Germania. I parenti terribili Porsche e Piëch, maggiori azionisti della Volkswagen con il 31,4 per cento, dopo aver combattuto un’annosa guerra per il primato, sono pronti a ridurre la loro quota nel colosso automobilistico, cedendo parte delle azioni e dei diritti di volto al Land della Bassa Sassonia, per puntare sul lusso con il marchio Porsche. Il progetto prevede la quotazione in Borsa della Porsche; a quel punto, le due famiglie diventerebbero padrone assolute di un brand che può valere almeno 45 miliardi di euro o forse persino il doppio secondo molti analisti. Si tratta di creare attorno alle auto un insieme di prodotti e di eventi, entrando nella moda così come nel consumo culturale. Insomma, proprio come sta già facendo John Elkann con la Ferrari che, scorporata dalla Fiat Chrysler e fuori da Stellantis, vale in Borsa oltre 32 miliardi di euro (si tenga conto che l’intero gruppo che comprende Fiat, Chrysler, Jeep, Peugeot, Citroen, Opel capitalizza 52 miliardi).
La Ferrari ha già bussato alle porte della moda per diventare una vera e propria maison. Il tutto dovrebbe avvenire sotto la direzione del designer Rocco Iannone che ha lavorato in precedenza con Giorgio Armani come capo designer. La collaborazione riguarda la Formula 1 il cui team indossa i capi firmati GA in tutte le attività che avvengono al di fuori della pista. Il pilota Charles Leclerc è diventato il nuovo testimonial della casa di moda italiana. Non solo. In un’intervista a Vogue America, Giorgio Armani ha detto che il futuro del suo brand potrebbe portare a un’importante collaborazione con un’altra azienda italiana che non deve appartenere per forza al settore della moda. Ferrari sarebbe la candidata perfetta. Di qui le voci che hanno preso via via una consistenza sempre maggiore, fino ad arrivare ai dettagli finanziari: sarebbe dovuto avvenire addirittura il conferimento della Giorgio Armani alla Ferrari, poi la casa automobilistica avrebbe aumentato il suo capitale per consentire l’ingresso della casa di moda, permettendo a quest’ultima di acquisire una quota delle azioni tra il 15 e il 20 per cento. In questo modo, Giorgio Armani sarebbe diventato secondo azionista tra Exor (che detiene il 23,5 per cento) e Piero Ferrari (che ha il 10 per cento). Le indiscrezioni sono state smentite, resta comunque più che valida la collaborazione già avviata. Rimane senza risposta la domanda che circola da tempo sul futuro. Anni fa a Parigi si parlava di “entente secrète” con Arnault, ma era caduta nel nulla, così come il rumor che il miliardario francese voglia la squadra del Milan (la concorrenza con Elkann si sposterebbe anche sui campi di calcio). Il “signor Armani” come lo chiamano, 87 anni il prossimo 11 luglio, appena dimesso dall’ospedale dove era stato ricoverato per una brutta frattura all’omero in seguito a una caduta, si è presentato alla sfilata milanese nel suo quartier generale di via Borgonuovo. E non s’è fatto mancare un accenno al domani: “Lo sto preparando con le persone che ho accanto”, ha detto, “come mia nipote Silvana e Leo Dell’Orco che è molto bravo ed è accanto a me da una vita”. Per la prima volta Dell’Orco, collaboratore da 45 anni per la linea maschile, è sceso in passerella per raccogliere, commosso, i meritati applausi.
Anche il lusso ora si fa “sostenibile e resiliente” (come potevano non cedere alla moda i signori della moda?), ci sono sfilate verdi, stoffe riciclate e riciclabili, sistemi di produzione più puliti, un consumo di energia sempre minore. Ma riuscirà a evitare la mannaia fiscale? Tassare i ricchi è diventato il mantra dei governi progressisti, anche di quelli moderati come l’amministrazione Biden. Negli Stati Uniti è un profluvio di libri-manifesto come “Tax the Rich”, scritto da Morris Pearl, un ex manager di BlackRock e da Erica Payne che insieme a Pearl guida Patriotic Millionaires, una organizzazione di gente facoltosa che vuole “costruire una nazione più prospera, stabile e inclusiva” colpendo i paperoni. In Francia l’imposta sulle grandi fortune che piace molto anche in Italia, si deve a Mitterrand: in circa quarant’anni non ha fruttato granché (troppo ristretta la platea dei contribuenti) e non ha ridotto le diseguaglianze: è stata pagata dal 2 per cento dei contribuenti con un gettito di circa 4 miliardi di euro l’anno. In compenso, dalla sua introduzione si è registrata una fuga di capitali pari a 200 miliardi di euro, secondo la stima dell’Ifrap l’istituto che analizza le politiche pubbliche. Più volte si è cercato di abolirla. Ci hanno provato i gollisti tornati al governo nel 1986 con Jacques Chirac, due anni dopo hanno fatto marcia indietro e l’hanno chiamata Isf, Imposta di solidarietà sulla fortuna. I socialisti la difendono, la destra repubblicana nel 2003 l’attenua; nel 2007, Nicolas Sarkozy introduce lo scudo fiscale (durerà fino al 2011) che non permette di pagare imposte superiori al 50 per cento del reddito. François Hollande vuole imporre un contributo eccezionale sul patrimonio, ma il Consiglio di stato impone un tetto, perché la misura non diventi “confiscatoria”. Fa un tentativo anche Macron nel 2018; in realtà limita la tassa a case e palazzi escludendo il capitale, “per colpire la rendita invece che il rischio”; insomma viene trasformata in Ifi (Imposta sulla fortuna immobiliare), che applica aliquote progressive (dallo 0,5 all’1,5 per cento) a partire da un milione e 300 mila euro.
Spremere i pochi che posseggono molto (persino troppo) non pareggia il bilancio dello stato né modifica l’indice di Gini, ma quel che conta nella propaganda politica è il potere simbolico del messaggio. E oggi il Volksgeist (ammesso che esista) tira in questa direzione accomunando i populisti di sinistra a quelli di destra. Il lusso pone un problema in più perché non è frutto di rapina né di eredità parassitarie, non è manomorta, ma industria, è una filiera che arriva da Wall Street all’artigiano fiorentino che concia le pelli per Ferragamo.
Un fisco esoso provoca crisi e disoccupazione e proprio l’Italia è uno dei paesi più esposti. Tassare può anche essere giusto, ma è utile? Ecco un chiaro esempio di quelle che il filosofo Isaiah Berlin ha chiamato “verità contraddittorie” o “mete incompatibili” (quest’ultima definizione s’addice meglio alla questione fiscale). Quando si manifestano, creano un conflitto aperto e si possono produrre all’infinito argomenti validi e razionalmente ben argomentati in favore dell’una o dell’altra, senza raggiungere un risultato incontrovertibile. Che fare? Possiamo cercare di sopprimere la verità che non ci piace, ma in genere risulta impossibile e si finisce per provocare una catastrofe senza vincitori né vinti. O si può cercare di conciliare entrambe le mete, tentando una transazione: non si tratta di cedere a biechi compromessi o volgari mediazioni; non è un mercato delle vacche o uno scambio politico che dir si voglia; no, spiega Berlin, è in gioco niente meno che il pluralismo, l’alfa e l’omega delle società aperte.
tra debito e crescita