Il silenzio sull'Inpgi
Privilegi, crisi dell’editoria e scontro tra anziani e giovani dietro l’inevitabile approdo all’Inps
Mi è capitato poche volte – perché l’argomento viene accuratamente oscurato da quei media solitamente assatanati per le pensioni degli altri – di leggere articoli come quello di Luciano Capone sull’Inpgi (Il Foglio, 26 giugno 2021), nel quale vengono evidenziati gli elementi di una crisi finanziaria difficilmente recuperabile. Ma i rappresentati della categoria, spalleggiati dalla Fnsi, continuano a rifiutare quell’approdo (nell’Inps) a cui altri fondi largamente deficitari hanno attraccato senza fare troppe storie, a partire dall’Inpdai (l’Istituto previdenziale dei dirigenti dell’industria) che nel 1993-1994 fu il “compagno di merende” dell’Inpgi nel rivendicare dal governo Ciampi la “privatizzazione” ovvero l’autonomia deliberativa e gestionale della previdenza obbligatoria.
Nei giorni scorsi il sempiterno presidente Fnsi, Giuseppe Giulietti, ha lanciato un “appello al presidente del Consiglio, Mario Draghi, perché – non ha esitato ad affermare – se le uniche decisioni del governo in materia di informazione sarà un ‘bavaglio’ all’Inpgi, l’Italia perderà presto altre posizioni nelle graduatorie internazionali sulla libertà di stampa”. È singolare che la libertà di stampa si senta minacciata, se a garantire le pensioni fosse il resto del mondo del lavoro. Come sempre accade i dissesti previdenziali dipendono solo in parte dall’ostinazione con cui si difendono normative insostenibili; la causa di natura strutturale risiede – Capone coglie bene il problema – nelle trasformazioni e negli smottamenti del mercato del lavoro della comunicazione. Sul primo aspetto, l’Inpgi è stato l’ultimo ente ad adottare il contributivo: pro rata e per intero per i nuovi assunti dal 2017. Sull’Istituto precipitò, per accordo sindacale, anche la tegola del Fondo “ex fissa’’ ben presto divenuto una voragine perché assicurava prestazioni non sostenute da contribuzione. Prima della sua liquidazione forfettaria, alcuni giornalisti riuscirono a percepire l’ “ex fissa” fino a 3 volte; tanto a pagare non era l’editore ma il Fondo comune.
Che il settore sia in crisi da tempo è noto, ma il punto cruciale è un altro: i pensionati e quelli prossimi alla pensione appartengono a un mondo diverso da quello dei contribuenti. In nessun altro settore le tecnologie hanno determinato una cesura tanto netta tra chi, in un sistema a ripartizione, riceve la pensione e chi paga i contributi. Alcuni anni or sono, l’associazione Lsdi (Libertà di stampa diritto all’informazione) in un Rapporto sul giornalismo, metteva in evidenza la crisi della professione “con la crescita intensa del lavoro autonomo sottopagato, diventato una grande sacca di precariato, come dimostra il fatto che il reddito medio dei giornalisti dipendenti è superiore di 5,4 volte a quello della ‘libera professione’ (60mila euro lordi annui contro 11mila) e il fatto che 8 lavoratori autonomi su 10 (l’82,7%) dichiarano redditi inferiori a 10 mila euro”.
In sostanza, dall’inizio del secolo la quota di lavoro “autonomo” è aumentata di 10 punti. I giornalisti sono una delle categorie in cui è più evidente e marcata quella contraddizione giovani/anziani che tanto li appassiona nei loro articoli (dedicati ad altri settori). Mentre i trattamenti pensionistici erogati o da erogare nei prossimi anni hanno radici nelle retribuzioni della “belle époque” del giornalismo, gli attuali contribuenti si barcamenano in un mercato del lavoro sempre più destrutturato. Basti pensare che l’importo della pensione media dei giornalisti (di antico conio) è al terzo posto (67 mila euro nel 2019, pari al 74% del reddito medio) dopo notai e professori universitari. Tallonato dalle leggi di bilancio, l’Inpgi ha adottato alcune misure di contenimento della spesa; ma l’obiettivo a cui punta è allargare per legge la base contributiva, inglobando i “comunicatori professionali” ora iscritti all’Inps. Non sarebbe la prima volta che siffatte operazioni vengono effettuate. Per l’Inps sarebbe una perdita sopportabile. Ma di solito queste operazioni si sottopongono all’opzione degli interessati. Dubito che vi sarebbe un numero consistente di comunicatori disposto a passare all’Inpgi. Anche perché tra pochi anni dovrebbero ritornare, insieme a tutti gli altri, laddove sono partiti: all’Inps, già “fabbrica”, ora “ospedale” delle pensioni.